Rapporti contrattuali fra Stati e Organizzazione Internazionale

INDICE-SOMMARIO

I

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1. I fenomeni unionistici nella dottrina

2. Termini generalissimi della dottrina monista delle unioni e dell’«organizzazione internazionale» in genere

3. Atteggiamento relativamente prudenziale della corrente dualista.

4. Motivi di dissenso dalla dottrina dominante: a) portata privatistica dell’accordo internazionale; e b) natura extrainternazionalistica dei fenomeni di organizzazione interindividuale.

II

I TERMINI DEL FENOMENO DELL’ORGANIZZAZIONEGIURIDICA

E LA DOTTRINA DOMINANTE DELLE UNIONI

§ I – Organizzazione e soggettività giuridica negli enti

morali di diritto interno. Fonte dei due fenomeni

5. Duplice aspetto del fenomeno dell’ente morale nel diritto interno: soggettività ed organizzazione giuridica

6. La fonte dell’organizzazione e della soggettività giuridica nelle persone giuridiche pubbliche e private. Funzione dell’atto costitutivo

7. Atti e convenzioni-fonte ed atti e convenzioni-condizione nel diritto interno

8. Atti e convenzioni-fonte private ed atti e convenzioni-fonte pubbliche. Inidoneità delle prime (contratto obbligatorio atipico) a determinare effetti assoluti in genere e soggettività ed ordinamenti parziali in ispecie

9. Natura istituzionale-eteronoma del fenomeno dell’ente morale anche nelle persone giuridiche private.

§ II – I termini del problema delle unioni internazionali

e la dottrina dominante

10. – Gli elementi essenziali dell’eventuale fenomeno dell’ente morale internazionale. Concordanza generica della dottrina dominante sulla necessità della presenza dell’organizzazione giuridica accanto al fenomeno di soggettività. Caratteristiche del fenomeno di organizzazione ricercato

11. Il problema della fonte dei due fenomeni secondo la dottrina monista e dualista delle unioni

12. Enunciazione dei motivi generici di dissenso e piano del riesame.

III

IL PROBLEMA DELLA FON’I’E

DELLE UNIONI INTERNAZIONALI DI STATI

§ I – Le teorie dell’istituzione internazionale da medio accordo.

Inidoneità dell’atto a determinare soggettività

ed organizzazione giuridica

13. Le teorie dell’unione da mero accordo. Difetti della concezione pubblicistica dell’accordo internazionale su cui esse si fondano

14. L’accordo internazionale nel sistema degli atti e delle convenzioni private e pubbliche. Critica della contrapposizione dominante dell’accordo internazionale al contratto atipico di diritto interno come «fonte di norme» a «fonte di rapporti».

15. La portata soggettiva-oggettiva dell’accordo. Riduzione del problema alla qualificazione dell’atto come convenzione-fonte privata o pubblica

16. Natura «privatistica» degli enti soggetti diretti dell’ordinamento internazionale e conseguente natura privatistica dei trattati internazionali. Il trattato come contratto obbligatorio atipico

17. Fattori principali della concezione pubblicistica dominante (teoria dualista)

18. Inidoneità dell’accordo così concepito a determinare la soggettività e l’organizzazione giuridica dell’unione comunque intesa

19. Irrilevanza dell’adozione del principio della maggioranza nello statuto dell’unione agli effetti della qualificazione della fonte

20. Irrilevanza delle qualifiche nominali o del carattere plurilaterale degli atti agli effetti dell’esistenza dell’istituzione internazionale.

§ II. – La teoria dell’istituzione internazionale

da «jus non scriptum»

21. La teoria dell’unione come fenomeno di diritto internazionale consuetudinario. L’accordo come atto costitutivo qualificato da una norma di jus non scriptum. Sostenibilità teoretica della costruzione

22. Difetto di dimostrazione e inverosimiglianza della teoria. Rinvio.

IV

LA NATURA COMPLESSA DEGLI ENTI SOGGETTI DIRETTI

E L’ELEMENTO ISTITUZIONALE DELLE UNIONI

§ 1. – L’elemento istituzionale dell’unione nella teoria dualista

e nella teoria monista dell’ordinamento internazionale

23. La concezione dualista dell’ordinamento internazionale e degli enti soggetti elementari e l’elemento organico-istituzionale dell’unione. Ragioni che escludono il carattere giuridico-internazionale dell’organizzazione effettiva dell’unione. Necessità di vagliare a fondo la differenza fra la concezione monista e quella dualista a tale riguardo

24. La concezione pubblicistica e interindividualista dei monisti. Possibilità che per essa sussiste d’inquadrare i fenomeni di c.d. organizzazione internazionale come processi di accentramento dell’ordinamento internazionale. Importanza particolare della concezione degl’individui come soggetti per la teoria del «governo internazionale»

25. Caratteristiche della concezione dualista sotto il profilo della teoria delle unioni. Condizioni alle quali si potrebbe parlare di organizzazione internazionale nell’ambito di questa concezione (egemonia). Impossibilità di qualificare come fenomeni di organizzazione internazionale gli organismi interindividuali costituiti in attuazione degli accordi d’unione. Individuazione della ragione di tale impossibilità nel difetto di soggettività internazionale degl’individui e nel difetto di giuridicità internazionale degli «ordinamenti interni» degli enti in questione.

§ II. – L’elemento istituzionale dell’unione

nello sviluppo allenza-confederazione-stato federale.

Contratto internazionalistico «obbligatorio»

e istituzione interindividuale

26. Riprova dell’estraneità del fenomeno istituzionale interindividuale al diritto internazionale tratta dal riesame delle costruzioni monista e dualista dello sviluppo alleanza-confederazione-Stato federale

27. Incongruenze ed assurdità della costruzione dualista dominante e loro causa. Necessità di tener distinto il fenomeno contrattuale-obbligatorio d’ordine internazionalistico dagli elementi embrionali e dallo sviluppo dell’istituzione interindividuale grosso modo corrispondente

28. Riprova ulteriore della distinzione nelle «unioni» di protettorato e nell’incorporazione consensuale

29. Rapporto contrattuale-obbligatorio di diritto internazionale e istituzione interindividuale nell’evoluzione dell’unione confederale nord-americana in Stato federale. Il 1o Congresso continentale come embrione dell’ordinamento interindividuale corrispondente alla «più perfetta unione». Critica dell’interpretazione monistica del fenomeno.

§ III. – Estraneità dell’elemento istituzionale-interindividuale

al diritto internazionale

30. Conclusione negativa in merito all’appartenenza del fenomeno istituzionaleinterindividuale all’ordinamento internazionale. Impossibilità di superare questa difficoltà sul piano del diritto convenzionale o consuetudinario mantenendosi nell’ambito della teoria dualista.

V

CONCLUSIONI: «ORGANI DI FUNZIONI», PROCESSI EGEMONICI

E FENOMENI ISTITUZIONALI INTERINDIVIDUALI

§ I. – I meccanismi di unione come «organi internazionali di funzioni»

e il problema della loro soggettività giuridica.

I processi egenomici

31. Le unioni di Stati come contratti meramente obbligatori e i meccanismi delle unioni come «organi di funzioni» (con particolare riguardo alla Società delle Nazioni e alle Nazioni Unite). Correzione della teoria dominante degli «e organi di funzioni» dal punto di vista del «valore» dei fatti posti in essere dai meccanismi

32. Il fenomeno della soggettività del meccanismo d’unione come possibilità distinta da quella dell’esistenza dell’«istituzione internazionale» corrispondente all’unione. Conciliabilità della soggettività del meccanismo a certi effetti con la sua qualità di mero «organo di funzioni» agli effetti del patto d’unione

33. Possibilità teorica di riscontrare un fenomeno di organizzazione internazionale nell’egemonia e nei direttorii di potenze sul piano del diritto internazionale non scritto. Riserve. Critica della confusione corrente fra questi fenomeni e la prevalenza delle maggiori potenze in seno agli «organi di funzioni» corrispondenti alle unioni.

§ II. – I meccanismi delle unioni

e l’evoluzione dell’istituzione interindividuale

34. L’elemento istituzionale-interindividuale dell’anione («organo di funzioni») come eventuale embrione dell’organizzazione dei popoli degli Stati contraenti. Difficoltà di riconoscere un fenomeno del genere nei meccanismi corrispondenti alle Nazioni Unite ed alla maggior parte delle unioni regionali (e negl’«istituti specializzati»)

§ III. – Il rapporto tra il fenomeno contrattuale-unionistico

e l’istituzione interindividuale e il problema

del superamento del sistema paritario interstatuale

35. Il rapporto tra il fenomeno unionistico dell’«organo di funzioni» e l’organizzazione interindividuale

36. Il federalismo come via di superamento del sistema paritario interstatuale e la funzione secondaria e strumentale dei movimenti unionisti, societaristi, pacifisti e funzionalisti. Impostazione politica errata del problema de lege ferenda nei paesi occidentali.

I

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

Sommario: 1. I fenomeni unionistici nella dottrina. – 2. Termini generalissimi della dottrina monista delle unioni e dell’«organizzazione internazionale» in genere. – 3. Atteggiamento relativamente prudenziale della corrente dualista. – 4. Motivi di dissenso dalla dottrina dominante: a) portata privatistica dell’accordo internazionale; e b) natura extrainternazionalistica dei fenomeni di organizzazione interindividuale.

1. – La difficoltà principale della definizione scientifica dei vari fenomeni che vanno sotto il nome di «organizzazione internazionale», e della valutazione esatta della loro portata, deriva dal fatto che nessun campo come questo è legato alla soluzione dei problemi fondamentali del diritto internazionale e del diritto interno stesso, e che in nessun’altra materia si fa tanto sentire l’esigenza che il sistema attuale sia superato. E poiché man mano che ci si avvicina ai problemi fondamentali le soluzioni son sempre più incerte e controverse, le esigenze generali o soggettive de jure condendo finiscono per prendere il sopravvento su quella della definizione scientifica dei fenomeni, determinando costruzioni tecnicamente inesatte ed impostazioni politiche inadeguate dello stesso problema riformistico.

In sintesi, la dottrina appare oggi divisa in due grandi correnti, una delle quali – corrente monista – è portata dalle sue premesse a disconoscere la difficoltà di realizzare certi risultati con i mezzi internazionalistici disponibili, e l’altra – la corrente dualistica – è portata fondamentalmente a resistere alla prima. E nessuna delle due raggiunge risultati soddisfacenti, perché la prima fa le cose troppo facili e la seconda le fa meno difficili di quel che sono in realtà, secondo le stesse premesse da cui essa desume il suo atteggiamento prudenziale. Giudizio negativo che non solo è implicito nelle teorie che i nostri maestri ci hanno insegnate sulla scorta del Triepel e dell’Anzilotti – e questo vale per loro -, ma non è affatto in contrasto, come i monisti sembrano ritenere, con il vivo desideri – che tutti abbiamo – che certi fenomeni si producano. Esso tende anzi proprio a determinare più esattamente i fenomeni che dovrebbero essersi prodotti o dovrebbero prodursi, per stabilire se ed entro quali limiti i mezzi sinora adoperati siano idonei allo scopo.

2. – Per quanto riguarda i monisti, è presto detto. Essi concepiscono il diritto internazionale come il diritto pubblico dell’umanità, ossia come diritto supercostituzionale interindividuale «decentrato» e in questo senso «imperfetto»[1]. Il diritto internazionale, quindi, sarebbe munito come tale dell’attitudine e dei mezzi necessari per perfezionarsi all’infinito e soprattutto per superare lo stato di estremo «decentramento» in cui attualmente si troverebbe. In quanto diritto pubblico, dotato di mezzi di produzione di diritto nuovo di portata eteronoma; esso troverebbe innanzi tutto nell’accordo fra Stati un mezzo idoneo a realizzare, nell’ambito dell’ordine giuridico totale, qualunque mutamento. Trattandosi sempre di mutamenti del grado di accentramento, non sarebbero mai necessari dei rivolgimenti rivoluzionari. In quanto diritto fondamentalmente interindividuale, poi, l’ordinamento internazionale troverebbe negl’individui stessi i mezzi «umani» necessari per realizzare l’auspicato accentramento delle funzioni.

Secondo la maggioranza dei monisti, infatti, tutto sta che gli Stati si decidano a stipulare gli accordi necessari ed a conferire agl’individui, direttamente o indirettamente, le funzioni, i poteri, i diritti e gli obblighi necessari perché l’umanità sia «governata» meglio di quanto non lo sia attualmente attraverso gli Stati-organi decentrati che l’ordinamento internazionale avrebbe il compito di coordinare. Ogni atto internazionale di Stati che aggiunga nuove «carte», «statuti», «costituzioni», «patti» o nuove norme intese alla composizione delle controversie o allo svolgimento di attività volte al benessere degli uomini costituirebbe un passo più o meno decisivo verso la meta ideale[2].

L’essenziale è che due o più Stati vogliano determinate innovazioni. Non è in fondo nemmeno necessario che si tratti di Stati, perché in un ordinamento che fondamentalmente poggia sugl’individui ed agl’individui rivolge i suoi imperativi, anche i fenomeni di organizzazione interindividuale sarebbero fenomeni d’organizzazione internazionale, almeno in quanto istituiscano dei sistemi di collaborazione fra individui di paesi diversi. Si dovrebbero anzi considerare come fenomeni di organizzazione internazionale, a rigore di logica, anche la formazione di nuovi Stati o l’incorporazione di uno Stato da parte d’un altro, in quanto tali fenomeni determinano, in una certa sezione dell’umanità, vincoli più stretti di quelli che esistevano, ed ogni comunità giuridica interindividuale troverebbe la sua legittimazione nell’ordinamento internazionale allo stesso modo come le associazioni, i comuni, le provincie e gli Stati membri trovano la loro base giuridica nell’ordinamento dello Stato unitario o federale[3].

Molte altre cose, come vedremo, implica la concezione monista in tema di organizzazione internazionale, soprattutto grazie alla «disponibilità» degl’«individui» come destinatari delle norme e titolari delle funzioni attinenti a questo maggiore accentramento. Basti osservare che è appunto nell’ambito di una concezione siffatta, per esempio, che gli scrittori monisti o monisteggianti parlano dell’«ordinamento» delle Nazioni Unite come di una specie di costituzione volontaria della comunità internazionale aspirante a sostituirsi alla imperfetta costituzione esistente[4]. Ed è nell’ambito di questa concezione – e in particolare dell’idea della soggettività internazionale degl’individui – che i monisti sostengono essere.gli arbitri investiti di funzioni e poteri giuridici internazionali per la soluzione delle controversie fra Stati.

3. – Quanto ai dualisti, essi tengono in generale un atteggiamento molto più circospetto, e soprattutto concepiscono l’ordinamento internazionale in modo tale che i fenomeni in questione da un lato riescono di valutazione molto più difficile e dall’altro sono meno suscettibili d’interpretazioni ottimistiche. Tanto è vero che una parte considerevole della dottrina dualista nega l’esistenza di molti fenomeni di organizzazione, dei quali i monisti non esitano a riconoscere gli estremi. Ciononostante, l’incompleto sviluppo della concezione dualistica, abbinato al fattore de jure condendo sopra ricordato ed alla impropria concezione del fenomeno dell’organizzazione giuridica che la maggior parte della dottrina italiana professa (teoria organica), porta spesso i dualisti stessi su posizioni non diverse da quelle dei monisti, e soprattutto impedisce anche agli autori orientati in senso fondamentalmente negativo di percepire e svolgere compiutamente gli argomenti più solidi di cui la dottrina dualistica dispone in questo campo. E ciò determina, oltre ad una sopravvalutazione più o meno accentuata della portata dei fenomeni in questione ed alla conseguente impropria impostazione del problema de jure condendo da parte degli stessi dualisti, la conseguenza che la dottrina monista risulta non solo inadeguatamente criticata, ma spesso addirittura rafforzata dagli atteggiamenti dualisti.

I tratti essenziali per. i quali la concezione dualista diverge da quella monista sono la negazione del rapporto di derivazione – legittimazione del diritto statuale dal diritto internazionale – e la negazione che il diritto internazionale costituisca, in quanto vertice dell’ordinamento unitario dell’umanità, un ordinamento fondamentalmente interindividuale. L’ordinamento internazionale, quindi, dovrebbe essere caratterizzato, a nostro avviso, al contrario che per i monisti, come un ordinamento tipicamente privatistico di rapporti fra gruppi, la cui parte di diritto pubblico, data l’assenza di un «governo» e di mezzi di garanzia organizzata, dovrebbe ridursi alle norme di diritto spontaneo sulla produzione giuridica: dalle eventuali norme fondamentali sulla consuetudine alla norma pacta sunt servanda [5]. Si tratterebbe di un ordinamento paritario, insomma, di relazioni intersoggettive fra gruppi chiusi all’azione dell’ordinamento stesso. Conseguentemente, l’organizzazione giuridica generale o parziale della .comunità non dovrebbe potersi concepire nè come un processo da attuarsi mediante quei contratti privatistici che sono gli accordi fra i soggetti, perché. i fenomeni di organizzazione non si producono in nessun ordinamento con questi mezzi (se non in quanto essi siano previsti come fatti idonei da norme «istituzionali»), nè come un fenomeno in cui si possano utilizzare gl’individui, perché l’organizzazione giuridica di una comunità altro non è se non distribuzione di funzioni, competenze e poteri fra i soggetti dell’ordinamento: e i soggetti dell’ordinamento internazionale, secondo la teoria dualista, sono soltanto i gruppi[6]. I due. mezzi di cui dispongono i monisti sono dunque tali che i dualisti non potrebbero a rigore utilizzarli per costruire una teoria dell’organizzazione internazionale.

Considerata superficialmente, la dottrina dualista appare coerente con quelle che sono o dovrebbero essere le sue premesse (ma che in nessun autore si trovano portate alle conseguenze testè, indicate). Ed è grazie a questa coerenza che essa costruisce i fenomeni in questione in modo da tenerne la definizione e la collocazione sistematica relativamente più aderenti alla portata reale dei meccanismi e dei sistemi istituiti, alla misura in cui. essi costituiscono delle innovazioni entro il sistema paritario degli Stati ed ai risultati che si possono sperare dalla loro attività. Essa evita senza dubbio di presentare come processi di organizzazione della comunità giuridica degli Stati una quantità notevole di fenomeni che, se tendono spesso molto da lontano a costituire le premesse di nuove formazioni statuali più ampie (ossia a ridurre il numero dei soggetti fra i quali l’ordinamento paritario vige), ed eventualmente a gettare le basi di un’organizzazione statuale universale che annulli la stessa ragion d’essere dell’ordinamento paritario, non modificano sostanzialmente i caratteri di questo ordinamento[7].

Ciononostante la dottrina dualista finisce spesso per condividere le idee dei monisti non solo nel senso che quest’ultimo risultato sia conseguibile nell’ambito del sistema paritario e con l’impiego di mezzi di produzione giuridica da esso previsti, ma anche nel senso che esso sia conseguito in proporzioni più o meno ampie in certi campi o da certe «istituzioni» internazionali. I dualisti negano, si, che l’organizzazione federale sia uno sviluppo dell’ordinamento internazionale nel senso di un maggiore accentramento; sono poco disposti ad ammettere che gl’individui siano investiti di «funzioni» e «poteri» giuridici in base ad accordi fra Stati (nonostante il fatto che tali accordi prevedano la costituzione ed il funzionamento di meccanismi azionati da individui); negano anche, per lo più, che gli ordinamenti interni dei meccanismi d’unione facciano parte dell’ordinamento internazionale, cosi come negano, in molti casi, che le unioni costituiscano delle persone giuridiche internazionali. Ma, d’altro canto, essi non escludono che questi fenomeni – che sono tipici dell’organizzazione delle società interindividuali – possano verificarsi in un futuro più o meno remoto per effetto della volontà degli Stati e dello sviluppo degli stessi meccanismi costituiti; ed affermano senz’altro che taluni di essi si sono verificati o stanno verificandosi sotto la forma di ordinamenti speciali, di persone giuridiche o di «istituzioni» internazionali, ovvero sotto forma di «organi comuni».

In tema di arbitrato, p. es., ci si è tenuti più o meno decisamente sulla negativa sino a tutto il terzo decennio del secolo, ma si è finito per affermare l’.esistenza di una giurisdizione internazionale da parte degli stessi autori che, fino a qualche anno prima, negavano persino che si fosse in presenza di un fenomeno assimilabile all’arbitrato istituzionale interno[8]. Ed al riconoscimento dell’esistenza del fenomeno giurisdizionale ha tenuto dietro l’ammissione della soggettività dell’arbitro e del giudice. In tema di unioni di Stati, poi – che è l’argomento che qui interessa più direttamente -, ci si è tenuti e ci si tiene sulla negativa, p. es., per le unioni del tipo dell’Unione postale universale e della maggior parte degl’«Istituti specializzati» delle Nazioni Unite. Si afferma senz’altro, però, l’esistenza dell’ordinamento parziale e della persona giuridica – oppure dell’una o dell’altra cosa – sia nel caso delle confederazioni, sia nel caso della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite. Secondo un’opinione recentissima, anzi, si afferma l’esistenza dell’ordinamento internazionale particolare a vincolo associativo più stretto anche nei casi del Consiglio d’Europa, della Lega araba, dell’Unione panamericana, di altre unioni affini e forse della c.d. Comunità atlantica[9]. Dei tre autori dualisti che son più vicini alla negazione dell’esistenza di persone giuridiche internazionali[10], almeno uno ammette l’esistenza d’un fenomeno che, se non è proprio la persona giuridica internazionale, vi si avvicina di molto[11], e almeno due ammettono l’esistenza dell’«organo comune»[12].

4. – Secondo il nostro modo di vedere, mentre le dottrine moniste e monisteggianti sono viziate dalla concezione dell’ordinamento internazionale come diritto supercostituzionale della umanità, basata sul dato indimostrato che l’ordinamento statuale sia una derivazione di quello internazionale nello stesso senso in cui son derivati dal diritto statuale gli ordinamenti dei comuni e delle provincie, le teorie dualiste delle unioni – da quelle degli ordinamenti parziali e delle persone giuridiche internazionali da accordo fino a quelle degli «organi comuni» – sono viziate dalla incompleta nozione ed applicazione delle stesse premesse da cui muovono e dalla impropria nozione del fenomeno dell’organizzazione giuridica sia in se stesso sia nelle fonti da cui può derivare. E le ragioni specifiche che determinano il nostro dissenso sono principalmente due, che si riportano entrambe a quella più realistica visione dualista che non è stata sviluppata in tutte le sue conseguenze dagli stessi autori che l’hanno avanzata e dalla dottrina che vi si mantiene più fedele.

La ragione fondamentale è costituita dal fatto che, se s’intende l’ordinamento internazionale come i dualisti lo intendono, non sussiste più alcuna possibilità di attribuire all’accordo fra gli enti soggetti quella portata pubblicistica che sola potrebbe determinare effetti quali la costituzione di persone giuridiche od organizzazioni parziali. E questo in senso diverso da quello in cui tale difficoltà è intesa dagli autori che negano la soggettività delle unioni facendo leva sui limiti strettamente soggettivi di efficacia dell’accordo. L’effetto costitutivo di unioni, d’altra parte, difficilmente si potrebbe dedurre da norme consuetudinarie di dubbia esistenza e di ancor più dubbia conformità ai caratteri generali dell’ordinamento paritario fra gruppi.

La seconda ragione sta nel fatto che l’organizzazione giuridica corrispondente all’unione si concreta in ogni caso in un meccanismo azionato da individui e che non si presenta in modo diverso da un ente soggetto elementare dal punto di vista della rilevanza degli atti degl’individui stessi e della posizione del suo ordinamento interno rispetto all’ordinamento internazionale, avendosi così eventualmente un soggetto primario anziché un ente morale internazionale. Difficoltà questa che da un lato non è superabile dalle norme dello stesso patto d’unione, a causa della loro inidoneità a determinare ,la soggettività degl’individui e la derivazione dell’ordinamento interindividuale; e dall’altro lato non si potrebbe considerare superata, come si vedrà, da norme consuetudinarie, a meno di non ritenere che il sistema giuridico paritario interstatuale sia già stato sostituito, virtualmente o attualmente, dal sistema giuridico universale dell’umanità.

Se la dottrina non percepisce queste difficoltà, ciò è dovuto al fatto ch’essa è fuorviata dalla concezione pubblicistica dell’accordo. internazionale (che è contraria alla nozione degli Stati come enti soggetti elementari) e dalle concezioni organicistiche o «realistiche» delle persone giuridiche.

Nelle pagine che seguono cerchiamo di svolgere sistematicamente quelli che a nostro avviso sono gli argomenti essenziali contro la dottrina dominante delle unioni di Stati (con speciale riguardo a quella dualista), e ad indicare per sommi capi le linee essenziali d’una costruzione più soddisfacente. Converrà premettere alcune considerazioni sul concetto di persona ed organizzazione giuridica nel (diritto interno, allo scopo di porre in luce gli elementi essenziali del fenomeno e soprattutto il modo in cui esso si produce in seno a qualsiasi ordinamento giuridico.

II

I TERMINI DEL FENOMENO DELL’ORGANIZZAZIONEGIURIDICA

E LA DOTTRINA DOMINANTE DELLE UNIONI

§ I – Organizzazione e soggettività giuridica negli enti

morali di diritto interno. Fonte dei due fenomeni

Sommario: 5. Duplice aspetto del fenomeno dell’ente morale nel diritto interno: soggettività ed organizzazione giuridica. – 6. La fonte dell’organizzazione e della soggettività giuridica nelle persone giuridiche pubbliche e private. Funzione dell’atto costitutivo. – 7. Atti e convenzioni-fonte ed atti e convenzioni-condizione nel diritto interno. – 8. Atti e convenzioni-fonte private ed atti e convenzioni-fonte pubbliche. Inidoneità delle prime (contratto obbligatorio atipico) a determinare effetti assoluti in genere e soggettività ed ordinamenti parziali in ispecie. – 9. Natura istituzionale-eteronoma del fenomeno dell’ente morale anche nelle persone giuridiche private.

5. – Nonostante che buona parte della dottrina tenda a risolvere il fenomeno dell’organizzazione giuridica nel possesso della qualità di soggetto da parte di un ente reale diverso dall’uomo, tale fenomeno consta, a ben guardare, di due elementi non sempre abbinati e di valore ineguale. Da un lato c’è un fenomeno di soggettività, facente capo ad un centro artificiale d’imputazione. Dall’altro c’è un fenomeno di organizzazione giuridica di uomini e mezzi con la quale il centro d’imputazione viene per l’appunto a coincidere[13]. Di questi due fenomeni il più importante è senza dubbio il secondo, in quanto è in esso che si risolve in ultima analisi quella distribuzione di funzioni, competenze, diritti e doveri fra individui, che costituisce l’aspetto. essenziale dell’organizzazione giuridica della società totale (Stato) o parziale (persone giuridiche pubbliche inferiori e p.g. private). Quello della soggettività è in realtà solo un mezzo tecnico secondario. Ciò è tanto vero che può aversi l’organizzazione giuridica più o meno articolata d’una collettività indipendentemente dalla creazione di un centro di soggettività distinto dagli individui ai quali sono conferite le funzioni, le competenze, i doveri, i diritti e via dicendo. Basta pensare agli ordinamenti che non conoscono la personalità dello Stato. Il vero elemento distintivo della persona giuridica dalla persona fisica sta piuttosto nel fenomeno dell’organizzazione giuridica, che è invece assente nel caso degli enti-soggetti primari.

Quanto all’elemento soggettività – che per il momento consideriamo come abbinato in ogni caso a quello dell’organizzazione giuridica -, ci sarebbe molto da dire intorno alla sua natura e soprattutto intorno al suo rapporto e grado di similarità con la soggettività della persona fisica. Problema strettamente legato, a sua volta, a quello della natura reale, artificiale o giuridica dell’ente al quale essa viene a far capo.

Per quanto ci riguarda, siamo persuasi che l’ente al quale la soggettività fa capo – se proprio di ente si può parlare – si risolve nel centro artificiale d’imputazione istituito dall’ordinamento in corrispondenza dell’organizzazione giuridica totale o parziale, vale a dire in una entità meramente giuridica: con la conseguenza che la soggettività della p.g. va intesa in senso strumentale rispetto ai fenomeni di soggettività individuale in cui si risolvono le situazioni soggettive facenti capo all’ente morale. Ai fini presenti ci basta comunque che sia chiaro come alla persona giuridica corrispondano sia un fenomeno di titolarità di diritti e doveri più o meno analogo alla soggettività delle persone fisiche, sia un fenomeno d’organizzazione giuridica. Che dall’esistenza di questo secondo fenomeno derivi la impossibilità di identificare il centro d’imputazione con un’entità materiale data e il carattere strumentale della soggettività stessa è un punto che abbiamo cercato di dimostrare in altra sede, alla quale ci siamo permessi di rinviare.

Quanto all’organizzazione giuridica, essa coincide con l’ordinamento totale della persona giuridica o dell’istituzione originaria – o almeno con le norme di organizzazione della persona giuridica totale -, oppure con un ordinamento derivato da quello totale Il primo caso è quello dello Stato (diritto interno). Il secondo è il caso di tutte le persone giuridiche inferiori pubbliche e private (dallo Stato membro di uno Stato federale alle società commerciali). Quanto alle caratteristiche di quest’ordinamento, esse si riassumono in tre elementi essenziali, la cui presenza è indispensabile perché si possa parlare d’organizzazione giuridica. a) Il primo elemento è la giuridicità del sistema, che sarà originaria, se si tratta dell’istituzione originaria, derivata, se si tratta d’una istituzione inferiore. b) Il secondo è l’originarietà o l’autonomia, a seconda che si tratti dell’istituzione originaria o di una istituzione derivata Questo elemento è evidente nel caso dell’ordinamento corrispondente all’istituzione totale, ma si riscontra, a ben guardare, in misura più o meno rilevante, anche negli ordinamenti corrispondenti a istituzioni derivate. c) La terza caratteristica essenziale dell’ordinamento in questione è che esso si distingue dal rapporto giuridico intersoggettivo per l’elemento aggiuntivo dell’organizzazione gerarchica: Il rapporto giuridico – come la norma di relazioni intersoggettive – partecipa delle due caratteristiche (a e b) sopra ricordate. Esso è giuridico e fa parte dell’ordinamento da cui deriva. A differenza dell’ordinamento parziale, però, esso non è organizzazione, ma relazione intersoggettiva puramente e semplicemente. Nel rapporto giuridico è insita l’idea della paritarietà. Nell’ordinamento è insita quella dell’autorità e della gerarchia. All’interno di quest’ultimo si verifica il fenomeno dell’eteronomia, che è per l’appunto la caratteristica che fa dell’ordinamento della persona giuridica – anche la più privata delle associazioni – una istituzione in senso lato, caratterizzata come lo Stato e le persone giuridiche inferiori da un diritto «pubblico».

6. – Venendo alla «fonte» dalla quale l’organizzazione giuridica e la soggettività derivano, si possono distinguere tre ipotesi – che differiscono peraltro meno di quanto comunemente si crede dal punto di vista della fonte che entra in azione -, a seconda che si tratti dell’istituzione originaria o di una istituzione derivata ,e, in quest’ultimo caso, di una istituzione pubblica o privata.

Per cominciare dall’ipotesi che .c’interessa meno, l’istituzione totale è il prodotto del fatto originario di organizzazione della comunità giuridica, ossia del fatto normativo. Le istituzioni inferiori, invece, vengono in essere nella maggior parte dei casi come effetto di atti e fatti giuridicamente qualificati. Ed è qui che la dottrina dominante richiede una messa a punto.

Le persone giuridiche pubbliche vengono in essere, come è noto, o mediante fatti originari di diritto (organizzazione e persona giuridica dello Stato) oppure mediante atti legislativi o costituenti (comuni, provincie, regioni, cantoni, Stati membri di Stati federali). Le persone giuridiche private, a loro volta, vengono in essere, si dice, per effetto dell’atto negoziale o del riconoscimento o di entrambi questi fatti. E si aggiunge, da una parte considerevole della dottrina, che, sia nei casi in cui il riconoscimento è richiesto, sia e soprattutto in quelli in cui del riconoscimento si fa a meno – come avviene nel nostro diritto per le società commerciali -, la persona giuridica viene in essere, come organizzazione e come soggetto, per effetto d’un atto di autonomia privata (autonomia contrattuale) sanzionato o non sanzionato in ogni singolo caso dall’autorità politica. Sarebbe questo, anzi, uno dei criteri distintivi fra persone giuridiche pubbliche inferiori e persone giuridiche private. Le persone giuridiche pubbliche (Stato compreso, o escluso) nascerebbero in forza della legge e della costituzione. Le persone giuridiche private nascerebbero, a parte :il riconoscimento che non sempre è richiesto, per la volontà manifestata dai privati nell’esercizio della loro autonomia. A ben guardare, però, la differenza è molto meno sensibile, e soprattutto non è assolutamente esatto che la costituzione d’una persona giuridica privata sia l’effetto d’un atto di autonomia contrattuale. Le persone giuridiche private nascono, sì, normalmente, per iniziativa di privati, ma nascono sempre in virtù di norme di diritto obbiettivo. Il fatto che l’iniziativa dei privati esplichi nella costituzione delle persone giuridiche private un ruolo in un certo senso decisivo, che non esplica nella costituzione delle persone giuridiche pubbliche, fa sì che si parli dell’atto di fondazione e dell’«atto costitutivo» dell’associazione, come atto di «creazione» della persona giuridica[14]. E invero si tratta di manifestazioni di volontà che non solo sono dirette proprio allo scopo specifico della costituzione dell’ordinamento, e del soggetto corrispondente, ma contengono anche – sia pure entro certi limiti – libere determinazioni degli interessati circa lo scopo, i compiti, il patrimonio, la struttura organizzativa, la sede e l’attività dell’ente costituendo. A maggior ragione, poi, si è portati a parlare di autonomia dei soggetti nella costituzione di persone giuridiche quando si consideri che, accanto ai casi in cui la costituzione dell’organizzazione giuridica e del soggetto ha luogo solo in seguito ad un atto amministrativo, vi sono casi in cui le persone giuridiche vengono in essere automaticamente, in seguito ad una serie di atti dei privati che, per quanto complessi e tassativamente determinati dalla legge, non sono soggetti a sindacato discrezionale. Non è difficile individuare, tuttavia, sia pure approssimativamente, i limiti della funzione o delle diverse funzioni alle quali l’iniziativa privata adempie. È. sufficiente tener presente, a tal fine, da un lato la distinzione tra negozio-fonte e negozio-condizione e il rapporto diverso: che nei due casi intercorre fra le determinazioni della legge e quelle dei privati; Se dall’altro la natura stessa della persona giuridica.

7. – La numerosa classe delle convenzioni di diritto interno – e parliamo di convenzioni perché solo queste c’interessano ai fini presenti – adempie a due funzioni fondamentalmente diverse, che negli ordinamenti interindividuali moderni appaiono per lo più confuse nelle stesse figure di atti giuridici: una funzione di produzione giuridica ed una funzione condizionante.

a) Il contratto con il quale un soggetto s’impegna verso un altro a fornirgli un servizio o una prestazione non determinata da norme di diritto materiale esistenti, il contratto collettivo di lavoro, gli accordi costituzionali, il concorso delle volontà dei titolari d’un organo diarchico o collegiale, costituiscono dei fatti di produzione giuridica in quanto aggiungono tutti nuove proposizioni normative al sistema giuridico esistente in un momento dato[15]. La dottrina civilistica tradizionale, invero, suole escludere il contratto privato del tipo ricordato dal novero delle «fonti», in primo luogo perché esso costituirebbe rapporti anziché norme[16] e in secondo luogo perché sarebbe una manifestazione di autonomia anziché di un potere normativo su altri soggetti.

Senonché, la prima contrapposizione è insostenibile, una volta ammesso che una funzione di produzione giuridica è adempiuta anche dalla legge specialissima e dalla sentenza dispositiva: null’altro essendo evidentemente il rapporto giuridico (come il diritto soggettivo e l’obbligo) che la norma considerata dal punto di vista dei soggetti destinatari[17]. Quanto .alla seconda ragione – difetto di eteronomia della norma contrattuale -, essa ha, come vedremo, il suo rilievo per la determinazione dell’efficacia della fonte contrattuale (sempreché, beninteso, il contratto rientri nella figura testè ricordata di convenzione privata), ma non esclude che, se il contratto pone un regolamento di rapporti non predisposto da norme materiali esistenti, esso venga a creare, fra i soggetti contraenti, una nuova norma o rapporto; una norma o un rapporto., cioè, che non costituisce il concretamento o l’attuazione di diritti ed obblighi previsti per certe ipotesi da norme consuetudinarie o di diritto scritto esistenti, ma corrisponde a diritti ed obblighi nuovi[18].

b) Accanto alle convenzioni in funzione normativa, sta la classe numerosissima delle convezioni in funzione di condizioni del funzionamento di norme materiali esistenti, che è la categoria alla quale appartengono, negli ordinamenti moderni, quasi tutti i negozi bi- o plurilaterali. Al posto della funzione normativa svolta dalle convenzioni private e pubbliche della categoria considerata, gli atti di questo tipo adempiono alla funzione indiretta di realizzare la condizione all’esistenza della quale una norma materiale subordina il verificarsi di certi «effetti»[19]. Invece del potere di creare nuove norme-rapporti si trova qui il potere di realizzare la fattispecie d’una norma esistente. Mentre le convenzioni-fonte, private e pubbliche, sopra ricordate creano nuovi comandi o dispositivi, indicando eventualmente le condizioni alle quali i dispositivi funzioneranno, le convenzioni e gli atti-condizione in genere non fanno che attuare le condizioni del funzionamento di dispositivi esistenti[20].

La distinzione tra la funzione normativa e quella condizionante degli atti giuridici è invero piuttosto difficile nell’ambito degli atti diversi dalle convenzioni normative ad effetti pubblicistici, quali il contratto collettivo, gli atti interistituzionali in genere e gli atti di organi diarchici. Essa è così difficile, anzi, entro l’ampia classe dei negozi giuridici, che la dottrina civilistica oscilla, come è noto, fra la concezione di tutti i negozi come atti normativi-precettivi e la concezione di tutti i negozi come atti-condizione. E la stessa alternativa in senso assoluto si trova estesa a tutti gli atti giuridici. Ciò si spiega col fatto che le due distinte funzioni appaiono così strettamente legate l’una all’altra che non è sempre facile, nella maggior parte degli ordinamenti interindividuali, dissociarle a scopo analitico. Da una parte la figura del negozio-condizione (negozi o contratti tipici) tende ad invadere l’ambito di applicazione del contratto innominato (contratto obbligatorio atipico), per effetto della sostituzione di un regolamento legislativo o consuetudinario cogente o dispositivo al regolamento di rapporti effettuato più o meno liberamente ed ex novo – sia pure entro schemi in fatto uniformi – dai privati stessi. Sostituzione che, effettuandosi spesso su una parte soltanto della fattispecie e del rapporto già sottoposto all’attività normativa dei singoli, determina il più delle volte la confusione della funzione normativa con quella condizionante[21] entro un medesimo schema legislativo-dottrinale di negozio[22]. In secondo luogo, le norme dispositive lasciano funzionare in concreto la volontà. creatrice dei privati tutte le volte che i privati stessi esercitano la facoltà di derogarvi; senza contare che per lo più la disciplina legislativa (o consuetudinaria) cogente o dispositiva dei rapporti in questione lascia aperta la porta, qua e là, alla libera determinazione dei privati. Cosicché la volontà privata riesce a svolgere nella medesima figura una funzione normativa accanto a quella condizionante. Negli stessi negozi o contratti originariamente sorti come «tipici», poi, – e vedremo che tali sono sempre, relativamente al contratto obbligatorio atipico, gli atti costitutivi o modificativi di rapporti assoluti -, il regolamento eteronomo dei rapporti lascia di frequente un campo più o meno ampio – nell’ambito, come vedremo, dei rapporti inter partes – alla volontà creatrice dei privati. Il che determina, ancora per un altro verso, la confusione delle due funzioni o delle due specie di atti entro i medesimi schemi. Si aggiunga che in ogni caso, nei negozi-condizione – specie se essi sono la consacrazione legislativa di modelli utilizzati dalla pratica -, gli effetti giuridici possono ben essere voluti dai privati, nonostante che essi siano ricollegati direttamente dalla legge alla realizzazione del tipo negoziale ed al fatto dell’esistenza nell’intento pratico. Sicché è difficile dire fin dove il diritto obbiettivo provveda direttamente alla disciplina materiale dei rapporti e fin dove esso si valga eventualmente della volontà privata come strumento d’integrazione.

Tutto ciò non elimina, però, la distinzione tra le due funzioni che la volontà dei privati è chiamata a svolgere, e non giustifica certo la qualifica di tutti i negozi come condizioni dell’attuazione di norme, specie se fondata sull’erronea contrapposizione tra fonte e rapporto e tra norma astratta e concreta. Innanzi tutto resta il fenomeno del contratto innominato (obbligatorio) puro, fenomeno che è ben ampio, anche negli ordinamenti più evoluti, se un civilista può enumerare, a titolo di esemplificazione, una trentina di figure distinte di contratti atipici frequentemente utilizzati nell’ambito dell’ordinamento italiano[23]. In secondo luogo, il fatto che negli ordinamenti interindividuali attuali si manifesti una tendenza crescente alla tipizzazione dei contratti non toglie che il fenomeno del contratto atipico sia stato largamente utilizzato e possa essere utilizzato ancora in epoche più liberali dagli stessi ordinamenti, nè impedisce che esso assuma comunque una importanza maggiore in ordinamenti diversi. E vedremo essere proprio questo il caso della comunità giuridica internazionale. Comunque sia, del resto, la circostanza che i due fenomeni si trovino confusi frequentemente nelle medesime figure tradizionali non è una buona ragione per negare, come fanno le due correnti estreme ricordate, l’uno o l’altro fenomeno. Dopo tutto, le figure legislative o dottrinali corrispondenti ai singoli «negozi» non costituiscono degli assoluti, ma solo dei modi di raggruppare a scopo descrittivo le fattispecie giuridiche e le loro infinite, combinazioni[24]. La formazione delle singole figure o unità (fattispecie, negozi) può ben variare, quindi, a seconda del punto di vista dal quale si considera il fenomeno giuridico. La serie dei fatti al compimento dei quali fa seguito l’instaurazione di una determinata situazione giuridica apparirà giustamente come una figura o fattispecie unica agli effetti della situazione che quei fatti o atti concorrono a determinare (assunta anch’essa come unità), ma può ben presentarsi scissa in due o più fatti distinti dal punto di vista della funzione che ciascuno di essi svolge sotto il profilo della distinzione fra norme strumentali e norme materiali o tra fatti produttivi di nuovo diritto e fatti-condizioni. Forse la mancata percezione di questa ovvia verità impedisce soprattutto alla dottrina civilistica, anche più recente, di rendersi conto della relatività del concetto unitario di negozio giuridico. Che tutta una serie di atti siano da raggruppare insieme sotto certi riguardi – come è il caso dei negozi dal punto di vista della direzione della volontà dei soggetti verso certi effetti pratici o giuridici determinati – non implica necessariamente che sotto altri riguardi essi non differiscano: e tale; è il caso, a nostro avviso, dei negozi dal punto di vista della funzione di produzione giuridica.

Fatto sta che quando un soggetto, destinatario della norma che eleva il contratto atipico ad atto costitutivo di obbligazioni,dichiara ad un altro, nelle condizioni richieste dalla norma stessa, che gli darà 100, si costituisce una situazione ideale per cui il primo soggetto deve dare 100 al secondo. Situazione che non è altro che una norma individuale, concreta, ma sempre una norma nuova. Allorché un soggetto s’impegna a riparare il tetto della casa di un altro tutte le volte che il maltempo lo danneggi, si costituisce una situazione ideale per cui il primo soggetto deve riparare la casa dell’altro ogni qualvolta si verifichi l’ipotesi prevista: che è una norma «concreta» anch’essa dal punto di vista dei destinatari (e astratta, a differenza di quella precedente, dal punto di vista dell’infinito numero di ipotesi in cui potrà entrare in funzione): ma anche in questo caso si tratta di una norma nuova. La norma preesistente è la regola strumentale pacta sunt servanda, non una norma materiale. Materiale è la norma «A dia a B 100»; oppure «A ripari il tetto di B nei tali casi», che non esisteva nè in astratto nè ,in concreto prima che fra A e B si stipulasse il contratto. Se invece un soggetto trasferisce ad un altro il suo fondo osservando tutte le forme prescritte dalla legge, si costituisce, a parte gli eventuali rapporti obbligatori che potranno sorgere fra venditore e compratore (p. es. l’obbligo del secondo di pagare il prezzo al primo), una situazione per cui il secondo soggetto è «proprietario» del fondo al posto del primo. Situazione per cui tanto il venditore che tutti gli altri consociati sono tenuti ad un certo comportamento. Anche questa situazione non è altro che una norma o una serie di norme. Ma non si tratta di una norma o di norme nuove, come nei due casi ipotizzati sopra. L’obbligo di tutti i consociati, compreso fra questi il venditore, non è sancito ex novo nel negozio. Esso era già sancito in una norma per una serie indefinita di casi concreti, e da questa norma viene desunto direttamente. E lo stesso vale, ad esempio, per il matrimonio Allorché due soggetti compiono l’atto o la serie degli atti prescritti, si costituisce idealmente una situazione giuridica che, a parte. i rapporti di natura obbligatoria che le parti abbiano contratti nell’ambito della loro sfera di autonomia, non corrisponde ad una nuova norma, ma solo alla concretizzazione (figurata) di una norma che preesisteva indipendentemente da quel concreto atto di matrimonio.

Tecnicamente, la differenza fra la prima e la seconda coppia d’ipotesi sta nel fatto che nella prima ci troviamo in presenza di una norma. che contempla il fatto «contratto» come idoneo a vincolare i contraenti a dare, fare o non fare quello che essi stabiliscono. Siamo in presenza, cioè, di una norma che, in quanto non regola direttamente i fatti che indirettamente tende a valutare, ma solo il fatto dal quale le regole o le valutazioni deriveranno, è una norma strumentale; e in quanto non attribuisce a questo fatto la mera idoneità a porre una norma complementare bensì una norma nuova e integrativa rispetto a quelle esistenti, è una norma sulla produzione giuridica. Nel secondo caso siamo in presenza di una norma che contempla il negozio come condizione del proprio funzionamento: di una norma, cioè, che, in quanto determina direttamente le conseguenze .giuridiche del fatto, è una norma di diritto materiale[25]. La differenza appare relativamente netta quando si considerino da un lato il contratto atipico puro e dall’altro le varie figure del contratti e negozi tipici in materia patrimoniale, personale e familiare. Nello schema del contratto (obbligatorio) atipico si trova realizzata allo stato puro la figura del negozio-fonte[26]. Nei negozi tipici e nei contratti nominati si trova realizzato in modo più o meno esclusivo il fenomeno del negozio-condizione.

Sono tipici, com’è noto, i negozi (contratti) che corrispondono a cause più o meno specificamente riconosciute dal diritto obbiettivo, e che risultano quindi altrettanto specificamente previsti dall’ordinamento stesso nella loro disciplina e nei loro effetti. Atipico è invece quel negozio (contratto) che è preso in considerazione dall’ordinamento solo genericamente, come atto idoneo a costituire fra le parti rapporti giuridici obbligatori su qualunque oggetto o causa lecita e possibile[27]. La specificazione della causa nel primo caso e la sua genericità nel secondo va intesa naturalmente in senso relativo, poiché vi sono figure di negozi tipici così ampie da racchiudere, oltre all’infinita varietà delle realizzazioni concrete determinate dalla molteplicità dei soggetti e delle situazioni, una serie più o meno numerosa di «sottotipi» corrispondenti ad altrettante specificazioni ulteriori della causa «tipo»[28]. Il «tipo» del contratto di società, p. es., subisce variazioni non solo dal punto di vista di elementi accidentali quali le persone dei soggetti stipulanti e le infinite situazioni concrete che portano a stipularlo, ma anche -e in primo luogo – dal punto di vista dello scopo della società quale si manifesta nel regime della responsabilità dei soci e nell’oggetto: elementi alle cui variazioni – riconosciute in molti casi dall’ordinamento stesso – corrispondono i noti cinque «tipi» legislativi di società. Il «tipo»del negozio costitutivo di servitù si specifica, oltre e prima che nelle infinite sue attuazioni da parte dei proprietari degl’innumerevoli fondi dominanti e serventi, in vari sottotipi più o meno tassativamente determinati dalla legge e corrispondenti alle varie specie di utilità che un fondo può rendere ad un altro. In entrambi i casi però – come in tanti altri che sarebbe lungo ricordare – la tipicità del contratto nominato resta ferma, perché le variazioni in elementi diversi dalla causa – e soprattutto secondari (soggetti, oggetti) – non sono più rilevanti né frequenti di quelle che si verificano negli elementi corrispondenti del contratto atipico stesso[29], e la causa rimane sempre determinata dall’ordinamento obbiettivo – nonostante le variazioni rappresentate dai sottotipi – in modo incomparabilmente più specifico di quanto la causa di obbligazione nel contratto atipico sia determinata dai requisiti generici della liceità e possibilità dell’oggetto. In qualunque contratto di società, la causa «tipo» rimane l’organizzazione giuridica di persone e di mezzi per uno scopo determinato; e le cause dei singoli sottotipi di servitù non sono che specificazioni della causa tipica costituita dalla instaurazione di un rapporto per il quale un fondo presti, a determinate condizioni, un’utilità permanente ad un altro fondo[30].

È evidente, tornando alla distinzione tra la funzione normativa e quella condizionante della volontà privata, che nei negozi tipici i privati stipulanti non hanno che da manifestare, in ultima analisi, la volontà di conseguire il risultato pratico o l’effetto giuridico che il diritto più o meno specificamente prevede mediante il riconoscimento della causa negotii e la disciplina specifica dell’istituto, aggiungendo eventualmente le ulteriori determinazioni secondarie rimesse al loro arbitrio. Il negozio stesso, quindi, appare essenzialmente come il fatto al quale è condizionato il concreto funzionamento delle norme relative alla situazione o al rapporto giuridico di cui si tratta. Nelle singole realizzazioni del contratto obbligatorio atipico, invece, la volontà dei privati svolge sempre una funzione creatrice di nuove norme nell’ambito dell’amplissima categoria dei rapporti obbligatori corrispondenti alle infinite specificazioni della causa «lecita e possibile» che la legge tutela. I comportamenti ai quali esse saranno tenute risulteranno stabiliti giuridicamente ex novo – a parte la materiale ripetizione più o meno uniforme di certi schemi – dalla stessa loro volontà in funzione autoregolatrice. Mal s’interpreta dunque la realtà giuridica dando rilevanza, nel negozio giuridico, soltanto alla funzione condizionante od a quella normativa. Quando si considerino tutti gli atti comunemente annoverati fra i negozi, non è esatto dire nè che essi sono tutti delle fonti di norme nè che non lo sono. Vi sono negozi in funzione di fonti e negozi in funzione di condizione; e vi sono figure negoziali legislative o dottrinali che, considerate nella loro interezza – cioè nella struttura e composizione formale in cui si trovano espresse dal legislatore o dalla dottrina -, partecipano dell’una e dell’altra funzione. Il che non può destar meraviglia quando si tenga presente la relatività delle figure giuridiche alla quale si è accennato. Ha dunque torto la dottrina tradizionale quando nega ogni funzione di produzione giuridica a tutti gli atti annoverati tra i negozi. Ed ha torto dal canto suo la dottrina nuovissima, che attribuisce una funzione normativa a tutti i negozi. Quello che a noi interessa, ad ogni modo – ai fini internazionalistici che vedremo -, è l’esistenza di un tipo di convenzione privata – il contratto obbligatorio atipico – che, salvo talune differenze, si pone accanto alle convenzioni di diritto pubblico ed alla legge come un fatto di produzione giuridica, mentre la maggior parte dei contratti interni non svolgono una funzione del genere. E questo per determinare la portata giuridica dei vari atti, ai fini dell’individuazione, sia pure sommaria, dei termini normativi del fenomeno della persona e dell’organizzazione giuridica nel diritto interno e nel diritto internazionale.

8. – Quanto alla portata soggettiva-oggettiva dei due tipi di atti – e qui è bene ritornare senz’altro alla categoria specifica delle «convenzioni» in senso lato – essa è profondamente diversa e diversi sono i criteri con i quali va determinata.

a) È evidente che la portata delle convenzioni-condizione è determinata dalla portata delle norme. Il che significa che la portata delle convenzioni-condizione – come quella di ogni altro atto o fatto-condizione – non si può determinare in linea assoluta. Si può soltanto rilevare, p. es., che, poiché nel diritto interno la maggior parte delle norme di diritto materiale estendono o sono idonee ad estendere i loro effetti a tutti i consociati od a categorie più o meno ampie di essi, l’efficacia delle convenzioni-condizione considerate come classe è teoricamente illimitata. Esempi tipici di convenzioni-condizione a portata soggettivamente illimitata sono i contratti ad effetti assoluti. «effetti» che son disposti da norme materiali eteronome.

b) Venendo alle convenzioni-fonte (sempre nel diritto interno), la. distinzione fondamentale è quella già ricordata fra convenzioni private o contratti in senso stretto e convenzioni pubbliche. La convenzione-fonte privata è il contratto atipico. Le convenzioni-fonte pubbliche vanno dagli accordi fra associazioni professionali in regime di contratto di lavoro obbligatorio, agli accordi fra i titolari d’un organo diarchico ed agli accordi costituzionali in genere. Quanto alla loro portata, è facile dimostrare che, a parte le infinite e contingenti variazioni dei limiti oggettivi d’efficacia di ciascuna figura di convenzione-fonte pubblica, le due categorie di fatti giuridici si distinguono fondamentalmente per il limite assoluto di efficacia soggettiva posto alla portata del contratto obbligatorio atipico, e per il limite assoluto d’ordine oggettivo che automaticamente ne deriva.

Le convenzioni pubbliche hanno effetto, oltre e più che per le parti in sè e per sè, per i soggetti che alle parti siano legati da un certo rapporto: i sudditi rispetto ai patti costituzionali, i membri delle associazioni rispetto ai contratti collettivi (eteronomia)[31]. Il che significa, in sostanza, che anche la portata di queste convenzioni è refrattaria ad una teorizzazione generale. Si tratterà evidentemente di determinare, figura per figura, la sfera dei rapporti e dei soggetti rispetto ai quali la fonte derivata è idonea a funzionare. In linea generale ed assoluta si potrà dire soltanto ch’esse sono idonee a produrre effetti per soggetti terzi (eteronomia), da determinarsi nel modo stabilito dal legislatore o dalla consuetudine caso per caso. Una teorizzazione è possibile solo attraverso la contrapposizione della categoria delle convenzioni-fonte pubbliche alle convenzioni-fonte private, per le quali ultime i limiti generali ed assoluti sono invece molto netti, nonostante che non appaiano tali alla dottrina per varie ragioni.

Il limite assoluto di portata soggettiva della convenzione-fonte privata, ossia del contratto atipico, deriva dal fatto che questo tipo di convenzione è idoneo a produrre diritto nuovo (nel senso lato che s’è detto) soltanto nei rapporti fra i soggetti privati contraenti (sia che costoro agiscano direttamente sia ch’essi si valgano di mandatari). Ciò significa che le convenzioni-fonte private sono una manifestazione di autonomia in un duplice senso. Esse sono il frutto della libera determinazione dei soggetti fra i quali intervengono e non producono effetti a vantaggio o a carico di soggetti estranei. Le convenzioni pubbliche, invece, sono manifestazioni di autonomia solo dal punto di vista degli enti che le pongono in essere, giacché, per i terzi che ne subiscono le conseguenze, esse pongono norme eteronome. Il limite d’ordine soggettivo della convenzione-fonte privata si traduce poi a sua volta in un altro limite assoluto d’ordine oggettivo, che non s’identifica con le restrizioni più o meno ampie all’autonomia dei contraenti derivanti dall’estensione della regolamentazione materiale diretta della vita sociale per opera della consuetudine, della legge o delle fonti derivate. E questo limite assoluto ulteriore è rappresentato .dalla inidoneità «costituzionale» del contratto atipico a creare vincoli diversi da quelli strettamente «obbligatori». Perché è vero, senza dubbio, che la norma strumentale sul contratto atipico attribuisce ai contratti su soggetti leciti e possibili tutti gli effetti voluti dalle parti e :che non siano contrari a norme cogenti. È: anche vero, però, che, nei limiti in cui l’atto funziona come fonte convenzionale privata, questi effetti si risolvono esclusivamente inter partes[32]. Ed i soli rapporti giuridici che si risolvono interamente nella cerchia dei soggetti contraenti sono quelli strettamente obbligatori. Che è per l’appunto la traduzione del limite d’efficacia soggettiva in un limite che in un. certo senso è d’ordine oggettivo più che soggettivo.

Con un contratto obbligatorio, in altri termini, i privati possono, sì, obbligarsi al trasferimento del possesso della cosa od al rispetto del possesso dell’acquirente, ma non possono determinare quell’effetto assoluto che è la proprietà (o il possesso) come diritto erga omnes; possono obbligarsi a svolgere un’attività in comune ed a spartirsene i frutti in un certo modo, ma non possono determinare l’effetto assoluto che deriva dal contratto di società come «istituto»; possono obbligarsi ad attenersi al giudizio d’un terzo su un loro affare, ma non possono creare la giurisdizione o determinare gli effetti assoluti tipici del .compromesso rituale o istituzionale. La sfera dei rapporti sociali sui quali il contratto obbligatorio atipico può operare è teoricamente amplissima, p. es., in un ordinamento interindividuale primitivo, sicché la portata dell’atto non soffra limiti quanto all’oggetto delle obbligazioni che esso. crea. Ciò non toglie che esso crei sempre e soltanto quel tipo di rapporti giuridici che sono le «obbligazioni.».

Le ragioni che impediscono o sconsigliano alla dottrina del negozio giuridico di rilevare questo limite sono evidenti, e si ricollegano soprattutto alla circostanza che, negli ordinamenti moderni, da un lato l’ambito del contratto atipico appare sempre più ristretto dalla regolamentazione legale dei rapporti, e dall’altro la figura del contratto atipico meramente obbligatorio si trova utilizzata in pratica quasi sempre contemporaneamente a un contratto atipico in funzione di condizione del funzionamento di norme materiali ad effetti assoluti: con la conseguenza ovvia che gli effetti limitati ricollegati alla convenzione-fonte privata dalla norma strumentale si confondono con gli effetti illimitati disposti direttamente dalle norme materiali di cui la stessa convenzione o il negozio connesso realizzano la condizione. La distinzione appare tuttavia evidente e necessaria non appena si consideri – a parte il problema dell’accordo internazionale – l’evoluzione storica di tutti quei contratti i cui fini, già realizzati attraverso la costituzione di rapporti meramente obbligatori, sono stati ad un certo punto presi in considerazione direttamente dalle norme materiali dell’ordinamento: norme che hanno attribuito alla manifestazione di volontà delle parti gli effetti assoluti che in sè e per sè non possedeva. Si pensi, per limitarci a due esempi evidenti in campi diversi, alla evoluzione del contratto di società e dell’arbitrato interno[33]. Ma gli esempi si potrebbero estendere ai rapporti reali, ai rapporti attinenti allo status ed alla capacità delle persone, al diritto matrimoniale e di famiglia e via dicendo. E l’inidoneità del contratto atipico a determinare certi effetti assoluti si fa sempre più evidente man mano che dai rapporti più strettamente privatistici si passa .ai fenomeni attinenti all’organizzazione delle funzioni dell’ordinamento.

9. – Relativamente alle organizzazioni giuridiche private dunque, è chiaro che l’effetto costitutivo della soggettività e dell’organizzazione non si potrebbe ragionevolmente ricollegare all’autonomia dei fondatori nel senso pieno o relativamente pieno in cui essa si esplica nel contratto obbligatorio atipico (contratto-fonte), nè nei casi in cui il riconoscimento è richiesto nè in quelli in cui la nascita dell’ente è prevista come effetto automatico dell’atto negoziale «costitutivo» (società commerciali). La compenetrazione tra la figura del contratto atipico e quella del contratto tipico, complicata forse dalla presenza, in certi. casi, di una figura di convenzione di portata pubblicistica, rende estremamente difficile definire con esattezza la fisionomia dell’«atto costitutivo» o di «fondazione». Ma è difficile credere, comunque, che le parti «creino» il soggetto o l’organizzazione indipendentemente da norme specifiche di diritto obbiettivo che prevedano questa possibilità.

Per quanto riguarda la soggettività giuridica, i riflessi del fenomeno su tutti gli altri consociati sono tali e tanti che è inconcepibile che due o più soggetti «creino» la persona giuridica dal nulla, operando sulla base della norma strumentate secondo. la quale il contratto fa legge tra le parti. Occorre, evidentemente che l’ordinamento istituzionale della comunità. giuridica riconosca nella costituzione d’una persona giuridica una «causa» degna di tutela, ossia che la «persona giuridica» sia elevata ad «istituto»[34]. Il «potere» di. creare un soggetto distinto nei confronti propri e dei terzi va inteso dunque come «potere» di porre in essere la condizione alla quale questi effetti sono collegati da norme di diritto obbiettivo sia automaticamente. (società commerciali), sia subordinatamente alla sanzione specifica dell’autorità costituita. L’atto dei privati fondatori è condizione sine qua non, ma non è la «fonte» del fenomeno. La differenza rispetto alla costituzione delle persone giuridiche pubbliche sta dunque nel fatto che nella creazione di quest’ultime entra in gioco solo l’elemento necessario e sufficiente: il diritto obbiettivo. Nel caso delle persone giuridiche private, invece, almeno agli effetti della soggettività distinta dell’ente morale, l’atto dei fondatori realizza la figura d’un negozio-condizione e non quella del negozio-fonte.

Venendo a quel fenomeno strettamente connesso che è l’ordinamento della comunità parziale corrispondente alla persona giuridica, è meno facile avvedersi in questo caso che non si tratta di semplice autonomia normativa dei fondatori, perché costoro hanno il potere di determinare gli scopi, la ragione sociale e l’organizzazione dell’ente. È tuttavia da escludere che si possa parlare di autonomia dei contraenti nel senso pieno che s’è visto, quando si tratta di determinare rapporti di sovraordinazione e subordinazione di alcuni soggetti rispetto ad altri e che non verranno meno per il mero accordo degli stessi contraenti originari, oppure un effetto come quello della rappresentanza diretta dell’ente o dei membri da parte di soggetti determinati o da determinarsi.

Interessa poco dal punto di vista qualitativo che la soggezione degli uni e il «potere» normativo degli altri sussista in una sfera più o meno ampia o importante di rapporti, o nell’ambito del diritto privato piuttosto che del diritto pubblico, oppure nell’ambito del diritto dispositivo piuttosto che del diritto cogente. Il tratto essenziale dell’organizzazione giuridica sussiste ugualmente. E se così stanno le cose, è da escludere che un effetto del genere sia determinato dal contratto obbligatorio atipico, in quanto strumento di autoregolamento dei conflitti di interessi dei soggetti. Questo strumento è idoneo a costituire rapporti obbligatori fra le parti nell’ambito della loro autonomia, e potrà anche coprire, come ha coperto sino a quando non è sorto il contratto tipico di società, l’intera sfera dei rapporti obbligatori che nella persona giuridica sarebbero coperti dallo statuto. Esso è e resterà sempre inidoneo, tuttavia, in quanto strumento di produzione di diritto nuovo, a creare la società o l’associazione come comunità giuridica qualificata rispetto a quella più grande di cui le parti sono membri (pactum societatis) ed a determinare l’organizzazione della comunità: parziale (pactum subjectionis). Perché questi effetti si verifichino occorre una azione del diritto eteronomo diversa e più intensa di quella svolta dalla norma strumentale che contempla il contratto come mezzo per la costituzione di norme-rapporti obbligatori. È indispensabile, anche qui, che venga in essere l’«istituto», salvo che l’atto dei privati, dati i riflessi normativi diretti o strumentali che potrà avere pei soci futuri e l’autonomia che i fondatori esercitano nella determinazione del contenuto dell’ordinamento parziale, realizzerà probabilmente gli estremi dell’atto convenzionale ad effetti pubblicistici piuttosto che la figura di un mero atto condizione. Quello che è certo, ad ogni modo, è che in tanto si producono effetti del genere, in quanto alla norma sul contratto obbligatorio non qualificato si aggiungano delle norme di diritto obbiettivo che prevedano quel «tipo» di effetto che è la costituzione di associazioni per scopi possibili o leciti oppure determinati «tipi» di società commerciali.

Ciò risulta. in maniera particolarmente evidente dallo sviluppo storico dell’istituto della società. Dalla fase in un certo senso negativa, in cui i soggetti potevano realizzare quelli che oggi sono gli scopi del contratto di società solo attraverso istituti più elementari diversi, quali il consorzio tra fratelli (ereto non cito) e la sua imitazione nei rapporti fra estranei, la società è passata, come è noto – nella fase, diciamo così, positiva -, attraverso tre stadi facilmente individuabili: lo stadio del contratto-rapporto «atipico» (stipulatio), quello del contratto tipico di societas, ed infine lo stadio della società persona giuridica[35]; quest’ultimo scindibile a sua volta nello stadio della personalità giuridica conferita con atto ad hoc dall’autorità costituita, e lo stadio della società commerciale personificata attraverso un procedimento automatico. A parte le due fasi primitive, in cui l’«istituto», lungi dall’esistere come tale, non si manifesta che attraverso forme comuni di rapporti giuridici, il fenomeno al quale si allude si coglie con evidenza nel contrapposto tra la fase del mero contratto obbligatorio (stipulatio) e quella degl’istituti della societas e della persona giuridica. L’istituto comincia ad esistere con la societas. Ed a questo punto la funzione dei contraenti passa dalla «creazione» di norme-rapporti alla realizzazione di un atto che l’ordinamento qualifica come idoneo per la costituzione di un rapporto a contenuto tassativamente predeterminato o almeno previsto dall’ordinamento stesso come «tipo».

Così stando le cose, le tre ipotesi sopra considerate di costituzione di «enti morali» – e delle quali a noi interessa soprattutto quella che corrisponde alla c. d. «creazione» di persone giuridiche private – si distinguono solo nel senso che la prima corrisponde alla costituzione dell’istituzione od ordinamento originario, mentre la seconda e la terza corrispondono alla posizione di ordinamenti derivati: e nel senso che la seconda è la posizione dell’ordinamento derivato per effetto diretto di norme eteronome (atto d’imperio di grado più o meno elevato), mentre la terza è la posizione dell’ordinamento derivato per effetto indiretto di norme eteronome. Esse non differiscono nel senso che le persone giuridiche pubbliche siano create dall’alto e le persone giuridiche private nascano dal basso. In tutti e tre i casi si tratta d’un fenomeno di diritto eteronomo il cui elemento variabile è solo costituito, a parte il caso della persona giuridica-ordinamento originario, dalla misura in cui i privati partecipano alla determinazione dell’effetto costitutivo[36]. A meno che non coincida con la nascita stessa dell’istituzione, in altri termini, il fenomeno della persona giuridica (come fenomeno di soggettività e di organizzazione giuridica) è un fenomeno istituzionale di emanazione «autoritaria».

Passiamo ora all’esame del problema internazionalistico che c’interessa. Per quanto necessariamente sommarie, le considerazioni svolte sui termini del fenomeno e la sua fonte ci consentiranno forse d’impostare più adeguatamente il problema delle unioni e dell’organizzazione internazionale in genere.

§ II – I termini del problema delle unioni internazionali

e la dottrina dominante

Sommario: 10. – Gli elementi essenziali dell’eventuale fenomeno dell’ente morale internazionale. Concordanza generica della dottrina dominante sulla necessità della presenza dell’organizzazione giuridica accanto al fenomeno di soggettività. Caratteristiche del fenomeno di organizzazione ricercato. – 11. Il problema della fonte dei due fenomeni secondo la dottrina monista e dualista delle unioni. – 12. Enunciazione dei motivi generici di dissenso e piano del riesame.

10. – Anche per le «unioni internazionali di Stati», è facile constatare innanzi tutto che non si dovrebbe trattare certo d’un mero fenomeno di soggettività giuridica più o meno analogo a quello degli Stati stessi. Il fenomeno essenziale di cui si tratta di accertare l’esistenza ed eventualmente le caratteristiche è l’organizzazione giuridica: l’ordinamento o la comunità giuridica parziale. Ciò è tanto vero che una parte della dottrina pone senz’altro il problema delle unioni come problema di soggettività e di ordinamento particolare, o pone problemi di ordinamenti o comunità particolari indipendentemente dalla questione specifica della soggettività dell’unione corrispondente[37]. Il che è perfettamente giustificato quando si consideri l’esistenza di organizzazioni o comunità giuridiche non soggetti, come lo Stato inglese dal punto di vista del suo ordinamento, e la stessa comunità degli Stati dal punto di vista dell’ordinamento internazionale.

L’importanza dell’elemento giuridico diverso dalla soggettività in sè e per sè è fondamentalmente percepita dalla dottrina internazionalistica. Essa non manca di rilevare che in tanto si potrebbe parlare di unioni internazionali di soggetti (persone giuridiche internazionali in senso stretto) in quanto si constatasse l’esistenza delle caratteristiche sopra ricordate delle persone giuridiche in genere.

a) Essa avverte innanzi tutto la necessità che l’unione sia caratterizzata da un ordinamento che faccia parte dell’ordinamento internazionale. Non altro significa l’esclusione delle unioni «costituzionalità dal novero dei fenomeni di «organizzazione» di cui essa si occupa. Anche se trova la sua base iniziale in un trattato, l’unione costituzionale (Stato federale) non è considerata come una società internazionale di Stati, perché il suo ordinamento è estraneo al sistema giuridico internazionale. Appunto per questo essa viene annoverata fra i soggetti «elementari» o «semplici» della comunità internazionale[38].

b) La dottrina internazionalistica si rende fondamentalmente conto, altresì, che una persona giuridica internazionale è una cosa diversa da un rapporto giuridico. In senso lato, si dice, qualunque accordo fra due «Stati» costituisce fra questi soggetti una «unione». Non è a questo fenomeno, tuttavia – si aggiunge subito -, che ci si riferisce quando si parla di unioni internazionali di Stati. Occorre quell’elemento ulteriore che è l’organizzazione o l’istituzione. Ed è per questo che si escludono dal novero delle unioni di Stati intese come «organizzazioni», le c.d. associazioni «non istituzionali», quali le alleanze ed i vari accordi con i quali due o più Stati s’impegnano ad un’azione comune o assumono obblighi reciproci.

c) Si avverte anche, infine, implicitamente, che l’ordinamento o l’organizzazione si deve distinguere per qualche tratto – vincolo associativo più stretto o procedimenti speciali di produzione giuridica – dall’ordinamento totale nell’ambito del quale l’unione dovrebbe costituirsi. Tratto distintivo la cui mancanza farebbe dell’unione uno jus singulare nell’ambito dell’istituzione totale, anziché una istituzione parziale. È per questo che la dottrina insiste sul concetto di ordinamento «speciale» o particolare», distinguendolo, almeno in teoria, sia dal rapporto giuridico, sia dalla comunità giuridica totale, sia dalla stessa soggettività in sè e per sè.

Su tutti e tre i punti, d’altra parte, le idee cominciano ben presto a farsi meno chiare, soprattutto perché si tende generalmente a confondere l’organizzazione in senso giuridico, che è per l’appunto il requisito indispensabile, con l’organizzazione «effettiva» od organizzazione in senso «storico», che è una caratteristica comune anche agli Stati in quanto enti soggetti elementari della comunità internazionale.

11. – Quanto all’elemento «fonte», vi è un numero esiguo di studiosi italiani che avvertono la necessità di collocare il fondamento giuridico dell’«unione», in quanto soggetto e, implicitamente, in quanto ordinamento parziale o «particolare, in una norma consuetudinaria: e in una norma, precisamente, diretta in modo specifico ad elevare a «persone giuridiche» in senso tecnico (società di Stati) le unioni che i soggetti dichiarino di voler porre in essere mediante accordo[39]. La norma consuetudinaria è intesa, invero, come norma «generale» anche se speciale dal punto di vista dell’oggetto, nonostante che la «generalità» non sia, come s’è visto, il carattere decisivo agli effetti della idoneità della norma a realizzare l’effetto assoluto. E vedremo pure che questa teoria, virtualmente esatta, non è, senz’altro accettabile sul piano positivo per varie ragioni connesse con i caratteri dell’ordinamento internazionale. Sta di fatto, comunque, che essa configura una norma (per noi eteronoma) che svolgerebbe nell’ordinamento internazionale una funzione analoga a quella che svolgono nell’ordinamento interno le norme di emanazione sovrana costitutive di persone giuridiche private c pubbliche. Implicitamente, dunque, si assegna all’accordo, a nostro avviso, una funzione di atto giuridico ad effetto «tipico»determinato, piuttosto che la funzione di fonte dell’effetto costitutivo dell’unione internazionale.

Questa concezione è tuttavia una rarità nella dottrina italiana e straniera delle «unioni», perché la larghissima maggioranza degli autori fanno capo piuttosto al solo accordo, e quando fanno entrare in gioco una norma consuetudinaria non alludono a una norma speciale nel senso che ora s’è visto, ma piuttosto alle norme (posto che ve ne siano), ovvero ai criteri e principi sui quali è basato il fenomeno della soggettività degli enti soggetti elementari. Costruzione meno idonea, come vedremo, – per ragioni attinenti alla composizione ed alla struttura degli enti soggetti dell’ordinamento internazionale – a spiegare l’effetto costitutivo dell’organizzazione giuridica parziale.

La dottrina che in vario modo fa capo all’accordo-fonte per la costituzione di unioni internazionali di Stati è condivisa, innanzi tutto, dalla quasi totalità degli scrittori monisti, che ravvisano senz’altro nel trattato costitutivo (Patto, Statuto, Carta, Costituzione) l’atto di creazione dell’ente, almeno in quanto ordinamento o comunità giuridica parziale: e ciò quale che sia, poi, l’importanza attribuita da ciascun autore all’elemento reale o sociale sottostante, in rapporto all’elemento normativo. A questa corrente appartengono, per esempio, il Kelsen, il Verdross, lo Scelle, il Kunz, il Guggenheim, il Kopelmanas[40]. Ma la tendenza a far capo al mero accordo, almeno per uno dei due elementi del fenomeno, è la più diffusa anche fra gli scrittori dualisti[41].

Si devono ancora distinguere, poi, nell’ambito di queste dottrine, due tendenze non sempre chiaramente definite – anzi per lo più confuse nei singoli autori -, e che si ricollegano ai diversi modi di concepire le persone giuridiche ed alla diversa portata riconosciuta all’accordo in materia di soggettività giuridica. Da una parte stanno le teorie che fanno derivare senz’altro dall’accordo-fonte l’ordinamento parziale, la soggettività o le due cose insieme. Di ordinamento parziale o particolare derivante da accordo parlano, per esempio, il Kelsen, il Perassi, l’Anzilotti, il Baldoni, il Quadri, l’Ago[42], anche se non manca, fra questi, chi fa capo, in certi casi, a norme di diritto non scritto[43]. Di soggettività da accordo dell’unione parlano certamente il Kelsen, il Perassi, l’Anzilotti, e forse il Baldoni[44]. Da un’altra parte stanno invece le teorie che in tema di soggettività assegnano all’accordo, in quanto ordinamento parziale o mero rapporto contrattuale, la funzione di determinare piuttosto il costituirsi di una entità reale («organica» o «istituzionale»), alla quale ad un certo punto la soggettività giuridica internazionale verrebbe a far capo secondo le regole o i criteri generali valevoli per gli enti soggetti elementari o primari[45] – e soprattutto per gli Stati -, o per determinate categorie di essi quali gl’insorti, i comitati nazionali i governi in esilio, la Santa Sede, l’Ordine. di Malta, che sarebbero, come è noto, gli enti soggetti sui generis o gli enti la cui soggettività giuridica internazionale è «controversa».

12. – Come si è già accennato in sede introduttiva, il difetto di queste varie teorie sta nel fatto che, pur riconoscendo tutte che l’organizzazione di unioni o istituzioni interstatuali richiede la presenza di un’organizzazione giuridica e l’intervento di una fonte idonea a determinarla, nonché, eventualmente, un fenomeno di soggettività giuridica, nessuna di esse riesce a dimostrare il concorso di tutti questi elementi. Il solo elemento che relativamente a certe ipotesi risulti dimostrato è la soggettività giuridica, che è il meno importante e non basta da solo a denotare l’esistenza di un’organizzazione giuridica internazionale, perché potrebbe costituire un mero fenomeno di soggettività primaria non avente nulla in comune con il fenomeno della persona giuridica in senso tecnico.

a) Dal solo punto di vista della fonte del fenomeno – ed a prescindere, quindi, dal rilievo che segue (b) -, è accettabile teoricamente, come vedremo, soltanto la dottrina che subordina, in un modo o nell’altro, l’effetto della soggettività o dell’ordinamento parziale (o entrambi i fenomeni) al funzionamento d’una norma eteronoma preesistente o sorta eventualmente dopo la stipulazione del patto di unione o la sua attuazione. Dottrina che lascia peraltro molto perplessi per quanto riguarda la dimostrazione dell’esistenza della norma. Inaccettabili, invece – sempre dal punto di vista della fonte del fenomeno -, sono tutte le teoriche che comunque ricolleghino tutti e due od uno solo degli effetti in questione al funzionamento del mero accordo come atto di produzione giuridica, a meno che esse non giustifichino sul piano dualista una concezione dell’accordo che vedremo essere sostenibile soltanto nell’ambito della concezione monista.

b) Tutte le teorie, poi, comprese quelle che sembrino teoricamente sostenibili con la riserva che s’è detto, cadono perché non riescono comunque a dimostrare l’esistenza d’un’organizzazione giuridica internazionale, e quindi d’una persona giuridica internazionale in senso tecnico. Da questo punto di vista le sole teoriche che reggono alla critica son quelle che partono dalla concezione monistica dell’ordinamento, e che cadono a loro volta con tutta questa concezione. Per quanto riguarda le teorie dualiste, quale che sia la fonte che fanno entrare in funzione, esse riescono solo a dimostrare l’esistenza d’un ente elementare non diverso dagli Stati e dagli enti assimilati, ed a soggettività quantitativamente e qualitativamente trascurabile dal punto di vista dell’organizzazione alla quale dovrebbe corrispondere.

Nelle pagine che seguono tratteremo distintamente questi due punti. Prima ci occuperemo della fonte dell’unione come soggetto ed organizzazione giuridica. Poi discuteremo, in relazione alla ipotesi d’idoneità della fonte (ed a tutte le altre), se l’effetto che secondo le varie dottrine si produrrebbe si possa veramente considerare come un fenomeno di organizzazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico internazionale.

III

IL PROBLEMA DELLA FON’I’E

DELLE UNIONI INTERNAZIONALI DI STATI

§ I – Le teorie dell’istituzione internazionale da medio accordo.

Inidoneità dell’atto a determinare soggettività

ed organizzazione giuridica

Sommario: 13. Le teorie dell’unione da mero accordo. Difetti della concezione pubblicistica dell’accordo internazionale su cui esse si fondano. – 14. L’accordo internazionale nel sistema degli atti e delle convenzioni private e pubbliche. Critica della contrapposizione dominante dell’accordo internazionale al contratto atipico di diritto interno come «fonte di norme» a «fonte di rapporti». – 15. La portata soggettiva-oggettiva dell’accordo. Riduzione del problema alla qualificazione dell’atto come convenzione-fonte privata o pubblica. – 16. Natura «privatistica» degli enti soggetti diretti dell’ordinamento internazionale e conseguente natura privatistica dei trattati internazionali. Il trattato come contratto obbligatorio atipico. – 17. Fattori principali della concezione pubblicistica dominante (teoria dualista). – 18. Inidoneità dell’accordo così concepito a determinare la soggettività e l’organizzazione giuridica dell’unione comunque intesa. – 19. Irrilevanza dell’adozione del principio della maggioranza nello statuto dell’unione agli effetti della qualificazione della fonte. – 20. Irrilevanza delle qualifiche nominali o del carattere plurilaterale degli atti agli effetti dell’esistenza dell’istituzione internazionale.

13. – Il problema fondamentale delle unioni e dell’organizzazione internazionale in genere è quello della idoneità degli strumenti tecnici utilizzati a determinare il duplice effetto della soggettività e dell’organizzazione giuridica internazionale. Ed a questo riguardo non sapremmo condividere la dottrina che ravvisa uno strumento idoneo nel mero accordo fra i soggetti. L’idea che questa idoneità sussista deriva fondamentalmente da una concezione pubblicistica dei trattati internazionali, che non solo non è dimostrata da nessun autore ad è il più delle volte data addirittura per sottintesa, ma si trova smentita dalla dottrina dualista e solo apparentemente (e implicitamente) giustificata dalla dottrina monista.

La nozione dominante dell’accordo internazionale come atto bi o plurilaterale idoneo a produrre, nell’ambito «particolare», qualsiasi norma giuridica voluta dalle parti è viziata, a nostro avviso, da un duplice equivoco che conduce la maggior parte degli internazionalisti ad attribuire ai trattati una «potenzialità» giuridica più che negoziale e comunque notevolmente superiore a quella ch’essi realmente posseggono[46].

a) Il primo fattore di equivoco è costituito dalla tendenza a restringere il concetto di fonte ai fatti ed atti idonei a produrre norme.generali o astratte, contrapponendolo in particolare ai negozi giuridici, intesi come fonti di rapporti o solo di rapporti. b) Il secondo fattore è costituito dall’idea che l’assenza di limiti di diritto «obbiettivo» al «potere» degli Stati di obbligarsi reciprocamente mediante trattato importi una più ampia portata dell’accordo rispetto al contratto interno. Si ritiene, almeno, che l’inesistenza, in una determinata materia, di norme di diritto internazionale consuetudinario, importi la possibilità che gli Stati realizzino eventualmente, mediante accordo, sia pure nell’ambito «particolare», gli. stessi effetti giuridici che sarebbero realizzabili qualora quelle norme esistessero, ivi compresi gl’«istituti» e le «istituzioni»[47]. È strano, anzi, che la possibilità di effetti assoluti o istituzionali dell’accordo. sia ammessa sempre più frequentemente e con maggiore larghezza dalla dottrina, man mano che dalle materie di c.d. «relazioni inter-soggettive» si passa all’«organizzazione delle funzioni». In tema di trasferimento della sovranità territoriale, p. es., si ammette che in tanto l’accordo può sortire, eventualmente – e la questione in sé e per sé non c’interessa -, l’effetto costitutivo del diritto reale di dominio, in quanto vi sia una .norma di diritto consuetudinario ad hoc che attribuisca all’accordo questo effetto[48]. Ed è largamente avvertita, p. es., l’inidoneità dell’accordo a «creare» soggetti[49]. Quando si passa a fenomeni ancora più decisamente istituzionali, invece, quali la produzione giuridica, la soluzione delle controversie e la costituzione di comunità od ordinamenti sia pure particolari, si ammette presso che universalmente che dall’accordo – dal mero accordo, se si eccettua la teoria del Balladore Pallieri[50] – possano derivare fenomeni di produzione giuridica di terzo grado[51], procedimenti giurisdizionali o quasi giurisdizionali internazionali[52] e comunità od ordinamenti giuridici parziali internazionali[53]. Le sole limitazioni sarebbero costituite dal fatto che il fenomeno non si verifica che in quanto i soggetti l’abbiano voluto, e sempre nell’ambito limitato degli Stati contraenti.

Entrambe le caratteristiche che la dottrina attribuisce all’accordo corrispondono, come vedremo, alla realtà, specie per quanto riguarda la funzione di produzione giuridica alla quale l’accordo internazionale adempie e l’assenza presso che totale di norme cogenti di diritto internazionale non scritto che ne limitino il campo di utilizzazione da parte dei soggetti. Il loro giusto rilievo implica d’altra parte sempre, specie a causa della inesatta impostazione del confronto con i negozi interni, un elemento che oscura i termini reali della questione, inducendo la totalità della dottrina a sopravvalutare in misura più o meno grande la portata dell’atto. E questo elemento è costituito principalmente dalla nozione degli enti soggetti come «persone giuridiche» e come «Stati» e da tutta la concezione pubblicistica dominante del diritto internazionale che a questa nozione è a sua volta legata.

14. – Per cominciare dal concetto di «fonte» e dalla contrapposizione comune fra il trattato internazionale e il negozio giuridico interno (contratto), è facile costatare che la dottrina internazionalistica dominante distingue in sostanza due grandissime classi di «convenzioni» bi o plurilaterali: le convenzioni o contratti privati di diritto interno, e le convenzioni pubbliche, fra le quali ultime include senz’altro gli accordi o la maggior parte degli accordi internazionali. Alle prime essa assegna generalmente funzione e portata privatistico-negoziale. Alle seconde assegna carattere e portata pubblicisticolegislativa[54]. I trattati e le altre convenzioni pubbliche – dagli accordi internazionali e costituzionali ai contratti collettivi ed al mediam genus degli accordi fra persone giuridiche private – rientrerebbero nel novero delle fonti per antonomasia o delle fonti di «norme», e solo per l’ambito soggettivamente limitato della loro efficacia vengono qualificate come fonti di diritto «particolare». I contratti fra privati costituirebbero fatti ai quali si applica o nei quali si attua il diritto prodotto dalle fonti di diritto non scritto e scritto e dalle stesse convenzioni pubbliche. Essi costituirebbero, come si dice, «fonti di rapporti» anziché di «norme»[55]. A ben guardare, però, questa contrapposizione è impropria per varie ragioni.

Come abbiamo già visto, la formulazione della distinzione fra fonti e non fonti sulla base della contrapposizione fra «norme» e «rapporti» è inaccettabile come tale, perché norma e rapporto son distinti solo quando s’identifichi la norma con la proposizione normativa astratta. Una volta accettata l’idea che sono fonti anche la legge specialissima e la sentenza dispositiva, è assurdo contrapporre fonti di norme e fonti di rapporti come due classi qualitativamente diverse di fatti, perché il rapporto non è che la norma del caso concreto – la norma specialissima – considerata dal punto di vista dei soggetti fra i quali opera[56].

La definizione più ragionevole delle «fonti», invece – a parte la eventuale restrizione del concetto alla categoria dei fatti produttivi di diritto eteronomo nel senso che vedremo -, è invece quella che include in questo concetto ogni fatto (o atto) che determini l’esistenza di proposizioni normative nuove, ossia di regole di condotta che modifichino o integrino il sistema normativo della vita sociale esistente in un momento dato. E si è visto che in questo senso è senza dubbio fonte il contratto atipico[57]. Non è fonte, perché non pone diritto nuovo ma realizza solo le condizioni previste da una norma esistente per il suo funzionamento, il contratto o il negozio tipico. Se e nei limiti in cui ciò è esatto, è dunque improprio contrapporre le convenzioni pubbliche ed i trattati internazionali alle convenzioni private, come «fonti di norme» a «fonti di rapporti». Se la convenzione realizza soltanto l’ipotesi d’una norma materiale, determinando gli effetti da questa predisposti, siamo in presenza d’un fenomeno diverso dalla produzione di diritto nuovo. Ma se la convenzione è contemplata da una norma strumentale che attribuisce all’accordo fra le parti l’idoneità a produrre effetti che la norma stessa non determina a priori, siamo in presenza d’una fonte di diritto: salvo a vedere, beninteso, di che specie di diritto si tratti Comunque, la circostanza che dall’atto consegua l’esistenza d’una norma equivalente ad un solo rapporto od a più rapporti fra soggetti determinati o non determinati non costituisce in sé e per sé una differenza qualitativa. Vero è senza dubbio che gli accordi internazionali adempiono nella maggior parte dei casi alla funzione di «fonti» nel senso specificato, in quanto realizzano per lo più esclusivamente la fattispecie della norma strumentale che prevede l’accordo come atto idoneo a porre nuovo diritto fra «Stati», mentre gli atti generalmente annoverati fra i negozi non si presentano per lo più come fonti, in quanto costituiscono, nella maggior parte dei casi, la realizzazione delle condizioni di effetti predisposti da norme esistenti di diritto materiale. Ma non è escluso con questo né che un accordo operi soltanto od anche.come condizione d’una norma materiale di diritto non scritto, né che un negozio (o almeno un atto appartenente alla categoria dei negozi) determini soltanto od anche la posizione di diritto nuovo, in quanto operi a tutti od a certi effetti come contratto obbligatorio atipico[58]. La caratteristica – o la pretesa caratteristica – dell’ordinamento internazionale, di non esser munito d’uno strumento di produzione di diritto volontario legislativo e di contenere un numero relativamente scarso (o nullo) di norme materiali di diritto consuetudinario, importa soltanto la prevalenza nell’accordo della funzione di «fonte» rispetto alla funzione di «fatto-condizione», mentre il grande sviluppo subito dal regolamento legislativo o consuetudinario dei rapporti sociali interni fa sì che nel contratto (e nel negozio in genere) prevalga la funzione di «fattocondizione»[59]. Ma non si può contestare :né che dall’accordo possano derivare in certi casi effetti non nuovi, né che dal negozio possano derivare effetti nuovi. Né è rilevante, agli effetti della qualifica di fonte, che da un accordo internazionale o da un negozio interno derivino conseguenze nuove disposte per una classe più o meno ampia d’ipotesi, oppure conseguenze nuove disposte per una situazione concreta singola[60]. La differenza starà soltanto nella circostanza d’ordine quantitativo che nel primo caso siamo in presenza di una norma corrispondente a una serie di rapporti e nel secondo caso siamo in presenza d’una norma equivalente a un solo rapporto o, se si vuole, ad un rapporto puramente e semplicemente. Vi sono insomma o vi possono essere, sia in diritto interno che in diritto internazionale, atti o fatti«condizione» ed atti «fonte». Allo stesso modo come tra i fatti annoverati fra i negozi e in particolare fra le convenzioni private (contratti) ve ne sono del primo tipo come del secondo, così possono esservene di entrambi i tipi tra i fatti annoverati fra gli accordi internazionali. La differenza fra le convenzioni negoziali e gli accordi internazionali sta solo nella circostanza che tra i primi prevalgono gli atti-condizione o gli atti misti e fra i secondi gli attifonte: e che tra i primi in funzione di fonte prevalgono gli attifonte di norme concrete (= un solo rapporto) e fra i secondi gli attifonte di norme astratte (= serie più o meno ampia di rapporti). Dire quindi che l’accordo internazionale è fon.te e non negozio[61], non è esatto perché vi sono negozifonte come il contratto obbligatorio atipico. Né sarebbe esatto dire, d’altra parte, che l’accordo internazionale è fonte e negozio[62], perché vi sono negozi che fonte non sono. Sempreché, beninteso, non si voglia restringere la qualifica di «negozio» nel primo caso ai soli atti.condizione (ossia alle fattispecie di norme materiali): il che ci sembrerebbe azzardato[63]; e nel secondo caso ai soli negozi fonte: il che ci sembrerebbe ancora più azzardato[64]. Una volta accertato, poi, che l’accordo non è più fonte di norme di quanto lo sia il contratto interno o quanto lo sia o lo sia stato il contratto atipico interno, è evidente che viene a cadere un primo motivo di sopravvalutazione rispetto al negozio. Viene a cadere almeno quel fattore di sopravvalutazione che la dottrina più o meno consciamente e giustificatamente desume dall’idea che l’accordo internazionale sia «fonte» e il negozio non lo sia[65].

Non varrebbe obbiettare che l’allargamento del concetto di fonte è del tutto arbitrario e che l’accordo resterebbe una fonte secondo il concetto più comune. Innanzi tutto perché l’obbiezione sarebbe proponibile da chi restringesse (come noi non saremmo alieni dal fare) il concetto di fonte ai soli fatti produttivi di diritto spontaneo o volontarioautoritario ad esclusione dei fatti produttivi di diritto pattizio, ma non da chi distingua fonti e non fonti sulla base della contrapposizione insussistente fra «norme» e «rapporti». In secondo luogo perché, una volta adottato il concetto più ristretto di fonte – che corrisponde alla nozione di quel diritto istituzionale o eteronomo che «fa ordinamento», in contrapposizione al diritto puramente pattizio che «non fa ordinamento»[66] -, resterebbe da vedere se l’accordo internazionale sarebbe ugualmente da qualificare come una fonte. Il che vedremo subito essere molto meno certo di quanto comunemente si creda.

15. – Posto che, a parte le differenze d’ordine quantitativo, tanto le convenzioni private che quelle pubbliche possono realizzare sia gli estremi dell’attocondizione che quelli della fonte in senso lato, e posto che l’accordo internazionale può teoricamente presentarsi nell’una come nell’altra veste, si tratta ora di determinare la portata dell’accordo stesso in ciascuna delle due ipotesi. E il modo migliore d’intendersi è di partire dalle osservazioni già svolte in tema di convenzioni private e pubbliche di diritto interno[67].

Come nel caso di quest’ultime, il problema della portata degli effetti dell’accordo si riduce in ultima analisi alla questione di sapere innanzi tutto se si tratti d’una convenzionefonte o d’una convenzionecondizione. Questione eventualmente subordinata a quella di sapere se nell’ordinamento internazionale esistano convenzionicondizione o in quali limiti, e che si riduce a sua vota al quesito se esistano norme materiali di diritto internazionale che attribuiscano a certi accordi, anziché od oltre all’idoneità a produrre normerapporti volontari nuovi, anche la funzione di condizione di effetti predeterminati[68]. In secondo luogo si tratta di stabilire se l’accordofonte – che è senza dubbio la figura prevalente nell’ordinamento internazionale per ragioni ben note – realizzi la figura della convenzione privata ovvero quella della convenzione pubblica.

a) Il primo problema non ci interessa in questa sede, nei suoi termini generali, perché rientra come tale nella teoria generalissima dei fatti giuridici internazionali e nella parte speciale della materia. Esso ci interesserà, in linea specifica, quando ci occuperemo della teoria che fa derivare la costituzione dell’unione internazionale da un accordo in funzione di condizione d’una norma consuetudinaria ad hoc (Balladore Pallieri).

b) Quella che invece costituisce il nocciolo della questione presente è proprio l’efficacia privatistica o pubblicistica dell’accordo internazionale in funzione di atto di produzione giuridica. Se nell’assolvere questa funzione l’accordo internazionale presentasse le caratteristiche della convenzionefonte pubblica, è evidente che non si potrebbe contestare, almeno in linea di principio, che un trattato fra «Stati»soggetti sia idoneo a determinare l’effetto della soggettività e forse dell’ordinamento parziale. La norma strumentale sull’accordofonte – la ben nota «pacta sunt servanda» – equivarrebbe in un certo senso, in tale ipotesi, alle norme di diritto interno sul contratto collettivo ed alle norme relative ad accordi interistituzionali. Come tale, essa andrebbe intesa nel senso che le norme post:e da un accordo fra Stati siano idonee a determinare – posto che non esistano limiti specifici e sempre nell’ambito dei soggetti contraenti – qualunque effetto giuridico, ivi compresa la costituzione di unioni fra i soggetti come fenomeni di soggettività e di organizzazione parziale o totale.

In caso contrario, si dovrebbe contestare recisamente – più recisamente di quanto a volte si faccia – la possibilità che sulla base d’un mero accordo i soggetti possano determinare degli effetti del genere. L’efficacia dell’accordofonte sarebbe circoscritta, in tale ipotesi, al pari di quella del contratto obbligatorio atipico di diritto interno, entro il limite soggettivo che s’è visto. Da un lato l’accordo costituirebbe una manifestazione di autonomia contrattuale nel duplice senso positivo e negativo sopra spiegato: nel senso positivo, cioè, di determinare solo gli effetti e tutti gli effetti voluti dalle parti nell’ambito lasciato alla loro iniziativa; e nel senso negativo di non porre in essere norme valevoli per enti diversi dai contraenti diretti. Effetti inter partes, in altri termini, in senso pieno. D’altra parte, anche nei rapporti fra le parti l’accordo sarebbe idoneo a determinare soltanto effetti «obbligatori», perché solo i rapporti obbligatori si risolvono totalmente nell’ambito dei contraenti.

Anche pei trattati internazionali, quindi, il limite soggettivo di efficacia dell’accordo importerebbe l’esistenza di un limite oggettivo indiretto, nel senso che il trattato, pur potendo spaziare praticamente in qualunque sfera dei rapporti fra i soggetti, non potrebbe mai determinare l’esistenza d’«istituti giuridici» a carattere pubblicistico[69]. E questo limite varrebbe sia in tema di soggettività – e non soltanto delle unioni -, sia in tema di rapporti assoluti in genere, sia e soprattutto in tema di «organizzazione» dell’ordinamento e della società.

16. – Quanto a stabilire se la concezione esatta dell’accordo sia la prima o la seconda, tutto sta a vedere se i soggetti stipulanti siano investiti o meno del potere di regolamento eteronomo che caratterizza le convenzioni di diritto pubblico. E i dati forniti dalla realtà giuridica internazionale su questo punto depongono tutti in senso negativo. Basta considerare che gli enti soggetti contraenti sono i soggetti semplici e primari d’una società di pares, e non sono investiti dall’ordinamento internazionale di alcuna funzione d’ordine normativo, né nei confronti di enti similari (Stati, Chiese, insorti ecc.) né nei confronti degli individui. I monisti, è vero, la pensano diversamente, senza peraltro dimostrare la loro tesi. Ma pei dualisti gli Stati costituiscono gli enti soggetti elementari e quindi i «privati» dell’ordinamento internazionale.

Per i monisti, come, è noto, quelli che, secondo la maggior parte della dottrina (proprio od anche per questo) dualista, sona enti storico-sociali reali dati per il diritto internazionale, sarebbero ordinamenti (Kelsen, Scelle) o comunità giuridiche (Verdross, Kunz, Guggenheim) derivate e legittimate dall’ordinamento internazionale, e in questo senso parti dell’ordinamento o della comunità giuridica internazionale interindividuale. Sicché, mentre per i dualisti gli enti comunemente noti come «Stati» e gli enti assimilati sono i soggetti finali delle valutazioni dell’ordinamento internazionale, assorbenti in sé, agli effetti giuridici internazionali, gl’individui loro membriorgani, per i monisti gli Stati sarebbero istituzioni pubbliche interindividuali dell’ordinamento (interindividuale) dell’umanità. Qualunque norma di diritto internazionale avrebbe per destinatari, sia pure indirettamente – e qui si rivela uno dei punti più deboli della teoria -, sempre e soltanto gl’individui. E lo stesso varrebbe, evidentemente, per le norme poste mediante accordi fra i rappresentanti degli Stati. Come nel caso delle persone giuridiche di diritto interno, quindi, la convenzione «interstatale» produrrebbe effetti giuridici eteronomi nei confronti degli individui membriorgani[70]. Valore che deriverebbe, peraltro, come nel caso dei contratti collettivi, non dal fatto «convenzione» puramente e semplicemente, ma anche dal «potere» normativo che agli organirappresentanti dell’ente verrebbe a far capo per effetto della legittimazione della costituzione dell’ente da parte dell’ordinamento giuridico superiore[71]. Il che trova conferma ed applicazione nella configurazione degli individui partecipanti per ciascuno Stato alla stipulazione dell’accordo come «organi parziali» della comunità internazionale e costituenti, insieme con i rappresentanti dell’altra o delle altre parti contraenti, «l’organo totale» internazionale, ovvero «l’organe législatif interétatique»[72].

Appare logicamente giustificato, quindi, nell’ambito di questa concezione, l’accostamento del trattato internazionale alla legge dal punto di vista degli effetti eteronomi ch’esso importa per gli individui membriorgani degli entisoggetti[73]; avvicinamento che non ha nulla in comune, evidentemente, con la categoria degli accordi normativi o trattatilegge di cui alla nota distinzione professata ancora da una parte della dottrina, ed ha molto in comune, invece, con l’accostamento del contratto collettivo alla legge[74]. Ed appaiono altrettanto giustificati la concezione pubblicistica dell’accordo e certi atteggiamenti caratteristici della dottrina di parte monista in tema di attuazione interna dei trattati internazionali[75]. Atteggiamenti che peraltro sono spesso contraddetti da costruzioni o prese di posizione incoerenti[76]. Dato che non sarebbe il caso di entrare in questa sede in una lunga discussione sull’argomento, ci limitiamo ad osservare, riguardo alla tesi monista, che il suo postulato fondamentale è costituito in sostanza dall’idea che l’ordinamento internazionale si possa considerare come un ordinamento giuridico solo alla condizione ch’esso funzioni e sia inteso, al pari di ogni altro ordinamento giuridico, come un sistema di norme regolanti comportamenti umani. Condizione il cui corollario è appunto costituito dell’esistenza di una o più norme che legittimino gli Stati come persone giuridiche internazionali in funzione di strumenti od organi della comunità giuridica interindividuale, e da cui deriva la concezione pubblicistica degli Stati stessi e dei loro rapporti: ivi compresa la concezione pubblicistica dell’accordo. Senonché, dato che uno dei punti più deboli della costruzione è costituito proprio dalla circostanza che la legittimazione degli Stati come persone giuridiche internazionali non è per nulla dimostrata dagli autori monisti, ed è smentita dal fatto che non si è ancora dato un sol caso in cui la dottrina o la prassi abbia negato l’esistenza o la soggettività d’una comunità politica adducendo a motivo un qualche difetto di «legittimità» della sua formazione dal punto di vista del diritto internazionale stesso o del diritto interno, se mai la teoria monista è accettabile, essa lo è soltanto come una teoria negativa della giuridicità dell’ordinamento internazionale[77]. Ma non intendiamo addentrarci in questa sede nella valutazione della concezione monista. Ci limitiamo ad assumere come dimostrata la tesi dualista, che esclude, insieme con la giuridicità degli ordinamenti interni degli «Stati»-soggetti, l’esistenza di qualsiasi potere degli organi supremi o degli enti medesimi sugl’individui membriorgani.

Quando si parta dalla concezione dualista, infatti, non si può fare a meno di riconoscere che gli enti soggetti corrispondenti grosso modo agli «Stati» sono soggetti in senso finale delle valutazioni giuridiche di cui l’ordinamento è costituito e non soggetti strumentali in funzione di fenomeni di soggettività d’individui Ciò è una conseguenza inevitabile del fatto che l’ordinamento internazionale non qualifica (cioè non legittima), come i dualisti riconoscono, il potere degli organirappresentanti dell’ente soggetto nei confronti dei membri. E se si accetta questo dato, bisogna riconoscere altresì che non si trova realizzata, nel nostro caso, quella integrazione della fattispecie contrattuale strettamente privatistica in fattispecie a effetti giuridici eteronomi[78], che troverebbe luogo, invece, secondo la teoria monista. Risulta realizzata pienamente, al contrario, la caratteristica dell’identità fra le parti nell’atto e i destinatari degli effetti giuridici, che giustifica la distinzione del negozio privato interno dai fatti di produzione di norme pubbliche. Nell’ambito della dottrina dualista, insomma, che vede negli «Stati» e negli enti assimilati i membri originari della società internazionale, ed i soggetti finali dell’ordinamento – cioè il pendant degli individui rispetto all’ordinamento interno -, l’accordo si presenta nella sua struttura – e nel rapporto fra struttura ed effetti – esattamente allo stesso modo come il contratto atipico di diritto interno nella sua figura più semplice: il contratto innominato obbligatorio fra individui soggetti[79]. Le eccezioni ammesse da una parte della dottrina – i trattati a carico o a vantaggio di terzi – trovano il loro parallelo nel fenomeno eccezionale del «contratto a favore di terzi» del diritto interno, la cui esistenza non tocca minimamente la nozione del negoziofonte Tanto nel diritto interno che nel diritto internazionale, gli eventuali effetti a carico o vantaggio di terzi son disposti da norme diverse da quelle create dallo stesso accordo.

17. – Le considerazioni svolte risulteranno forse più chiare all’esame dei fattori principali che inducono la dottrina – almeno quella dualista – a collocare l’accordo internazionale in funzione normativa in una classe diversa da quella del contratto obbligatorio atipico del diritto interno. A parte la concezione implicita degli enti soggetti elementari come «istituzioni» dell’ordinamento internazionale, questi fattori si possono riassumere essenzialmente – senz’alcuna pretesa di completezza ed escludendo i fattori di sopravvalutazione di certi accordi di cui ci occupiamo più avanti – in tre o quattro punti.

Il primo fattore è l’idea che l’assenza di una funzione legislativa internazionale e la scarsezza delle norme cogenti di diritto non scritto determini un aumento della potenzialità dell’accordo, in quanto fonte di jus voluntarium. Idea che si trova per lo più abbinata alla distinzione qualitativa già discussa tra fonti di norme e fonti di rapporti. Secondo il massimo esponente della scuola italiana contemporanea, p. es. – il Perassi – «atto di produzione giuridica e negozio privato… sono figure che si contrappongono; ma, appunto perché sono comprese nella medesima categoria degli atti giuridicamente rilevanti, l’antitesi fra di esse è data dal criterio della diversa rilevanza, che a ciascuna di esse rispettivamente connette l’ordinamento giuridico l’atto di produzione giuridica è… rilevante come «fonte di norme giuridiche», il negozio giuridico è … rilevante come «fonte di rapporti». Nell’ordinamento internazionale, secondo lo stesso A., il fatto che la norma pacta sunt servanda qualifichi l’accordo fra «Stati» come fonte di norme escluderebbe che l’accordo sia negozio o «funzioni» anche come negozio. Con la conseguenza che la funzione costitutiva, modificativa, estintiva di «rapporti giuridici» sarebbe assorbita dalla funzione costitutiva, modificativa, estintiva di «norme giuridiche»[80].

Il ragionamento si riduce, a ben guardare a una serie di proposizioni molto semplici: a) il negozio giuridico è fonte di rapporti giuridici; b) l’atto internazionale nel quale la figura del negozio giuridico bilaterale (o plurilaterale) potrebbe trovare realizzazione è l’accordo fra Stati; c) l’accordo fra Stati è fonte di norme giuridiche; ergo: il negozio giuridico bi o plurilaterale non esiste od è assorbito dalla «fonte». Ma poiché il rapporto giuridico, come s’è visto, non è che la norma nel caso concreto considerata dal punta di vista dei soggetti che ne sono i destinatari, da un lato il contratto obbligatorio non è meno fonte di norme di quanto lo sono la legge e la consuetudine, e dall’altro lato l’accordo internazionale non è più fonte di norme di quanto lo sia il contratto obbligatorio. Il ragionamento riportato va dunque sostituito con quello seguente: a) il contratto atipico è fonte di norme obbligatorie, poste dagl’interessati nell’ambito loro riservato; b) l’accordo è l’atto con il quale gli enti soggetti elementari dell’ordinamento internazionale pongono le norme regolatrici delle loro relazioni nell’ambito loro riservato; c) di conseguenza, l’accordo è il contratto obbligatorio atipico dell’ordinamento internazionale. Perché le cose stessero diversamente occorrerebbe che l’accordo fosse contemplato da una norma consuetudinaria come condizione di effetti da essa disposti: il che può ben darsi in certi casi, ma escluderebbe l’atto dal novero degli accordifonte; oppure che l’accordo fosse contemplato da una norma che lo rendesse idoneo a produrre effetti per i sudditi degli Stati contraenti: e questo presupporrebbe esistente la norma di legittimazione degli Statiorgani ipotizzata dai monisti[81].

Un secondo fattore è il concetto improprio di «diritto particolare» utilizzato dalla dottrina internazionalistica dominante.

È pacifico, nella dottrina generale, che le norme di diritto particolare sono norme eteronome né più né meno di quelle di diritto comune o generale, e non hanno nulla a che vedere con gli effetti del negozio privato. La posizione di norme di diritto particolare in senso proprio è una manifestazione di autorità. La posizione di norme negoziali è manifestazione di autonomia privata[82].

Trasportala sul piano del diritto internazionale quale appare alla odierna dottrina, e cioè costituito primariamente di una serie più o meno numerosa di norme di diritto consuetudinario, la distinzione fra diritto particolare e comune sembrerebbe a prima vista applicabile, nell’ambito stesso del diritto primario, alla contrapposizione fra norme consuetudinarie valevoli per l’intera comunità internazionale ed eventuali norme, consuetudinarie anch’esse, che avessero per destinatari cerchie di soggetti più ristrette[83].

La dottrina internazionalistica, invece, pur essendosi posto più volte il quesito circa l’esistenza o meno di gruppi di norme consuetudinarie di questo tipo[84], e pur avendo, talvolta, qualificato tali norme come norme di diritto «particolare»[85], si è senz’altro orientata, almeno nella sua maggioranza, nel senso di qualificare come tali anche o soltanto le norme derivanti da accordo, in quanto vigenti solo fra i soggetti partecipanti all’atto.

A nessun giurista può sfuggire, peraltro, la differenza profonda che divide, quali che siano i loro tratti comuni, il «diritto particolare» vero e proprio e il diritto da accordo. In entrambi i casi sussisterebbe senza dubbio una limitazione quantitativa d’efficacia. Senonché, innanzi tutto le norme di diritto internazionale consuetudinario o «particolare» vigerebbero in un certo ambito regionale, ma non per un numero individualmente determinato di enti – si pensi al caso del sorgere di un nuovo «Stato»soggetto nell’ambito regionale. Le norme di c.d. «diritto particolare» da accordo, invece, vigono nell’ambito di una cerchia di Stati individualmente determinati – cioè i partecipanti o gli aderenti all’accordo. In secondo luogo – e questa è la differenza essenziale -, il diritto particolare consuetudinario deriverebbe dalla stessa fonte istituzionale da cui scaturisce il diritto generale, e presenterebbe quindi tutte le caratteristiche del diritto eteronomo. Il c. d. «diritto internazionale particolare» da accordo deriva invece dalla volontà degli stessi soggetti fra i quali opera. Nel primo caso saremmo dunque di fronte a un diritto «particolare» idoneo a determinare qualunque effetto, sia pure nell’ambito soggettivo più ristretto. Nel caso dei diritto da accordo, invece, siamo in presenza di un fenomeno di mero autoregolamento di rapporti sociali.

Un altro fattore ancora della sopravvalutazione dell’accordo nel senso criticato è forse la tendenza comune a vedere nei trattati delle manifestazioni di un potere sovrano[86]. Idea che, accompagnata com’era – e spesso è tuttora – dalla confusione fra diritto internazionale e diritto interno, o peggio dalla considerazione del diritto internazionale come «diritto pubblico esterno» od eventualmente come una cosa sola con il diritto interno, conduce una parte notevole della dottrina a porre il trattato sullo stesso piano formale della legge del diritto statuale.

A determinare questo fenomeno deve aver contribuito soprattutto la constatazione dell’origine dei moderni trattati fra Stati dai patti patrimoniali a carattere privatistico fra sovrani e la trasposizione ingiustificata, sul piano del diritto internazionale, della progressiva pubblicizzazione alla quale tali patti sono andati soggetti con lo sviluppo dello Stato moderno[87]. Nell’ambito della teoria dualista, tuttavia, l’irrilevanza di questo sviluppo non dovrebbe nemmeno aver bisogno d’esser sottolineata. Anche a voler prescindere da ogni generalizzazione della tendenza sempre più chiara della dottrina ad interpretare privatisticamente la maggior parte dell’ordinamento internazionale -tendenza che a nostro avviso è nel giusto -, non si può non convenire che la natura pubblicistica dei soggetti dell’ordinamento internazionale dal punto di vista dei rispettivi ordinamenti interni non è di ostacolo alla interpretazione privatistica della maggior parte degli istituti e specie dei rapporti fra gli enti soggetti e gli oggetti delle situazioni giuridiche soggettive che ad essi fanno capo. Sino a quando restino fermi, dunque, il carattere interstatuale dell’ordinamento internazionale e l’irrilevanza giuridica internazionale della formazione, della costituzione e delle attività interne degli Stati, il fatto che l’accordo fra i governi assuma una colorazione pubblicistica agli effetti interni non può costituire un motivo per riconoscere effetti d’ordine pubblicistico al trattato dal punto di vista esterno. Lo stesso sviluppo storico che ha portato al concetto del pactum publicum resta un fenomeno strettamente costituzionalistico[88].

18. – Venendo finalmente al problema della fonte dell’unione, se fosse vero, come la dottrina dominante sembra ritenere, che l’accordo è idoneo a produrre norme che stanno ai soggetti dell’ordinamento internazionale come la legge e la costituzione stanno alla base sociale del diritto interno, l’effetto costitutivo di una istituzione internazionale sarebbe realizzabile, in teoria, mediante un accordo, almeno nell’ambito delle parti[89]. Nulla vieterebbe, in questo caso, di configurare l’accordo come provvisto di altrettanta idoneità a produrre, fra le parti, l’effetto in questione, di quanta ne posseggono la legge e la costituzione nei confronti dei sudditi. Le unioni di Stati apparirebbero non dico come persone giuridiche «private», costituite per iniziativa dei soggetti interessati, ma come vere e proprie istituzioni direttamente volute e poste, al pari delle persone giuridiche pubbliche del diritto statuale, dai «costitutori» dell’ordinamento. Non si comprenderebbe, anzi – in questa ipotesi -, per qual motivo si dovrebbe eventualmente ammettere l’esistenza degli ordinamenti parziali inter partes sulla base del mero accordo e dubitare in pari tempo della possibilità per i costitutori di conferire la qualità di soggetti distinti alle comunità giuridiche parziali o semi-universali corrispondenti (nei rapporti inter partes). Non varrebbe osservare, contro tale eventuale effetto automatico dell’accordo – posto che esso risultasse voluto dagli Stati «fondatori» -, che la soggettività è un fenomeno di diritto generale. Al pari di qualsiasi fenomeno giuridico assoluto e non diversamente dall’ordinamento parziale, la soggettività può derivare altrettanto bene da una norma «individuale» o «concreta», purché munita del «valore» necessario. Valore che non si dovrebbe poter negare nel trattato inteso come accordolegge, se si ammette – come ormai sembra pacificamente ammesso dalla dottrina italiana – che perché un ente sia soggetto è sufficiente la titolarità di un numero anche ristrettissimo di diritti o doveri ed anche di un solo diritto o dovere[90].

Né varrebbe osservare, contro l’esistenza della soggettività, che occorra il requisito dell’effettività dell’ente. A parte il fatto che vi sono dei casi, nel diritto interno, in cui esistono persone giuridiche mancanti di organizzazione effettiva[91], non si vede per quale motivo un atto idonea a creare nientemeno che l’ordinamento parziale inter partes non sarebbe idoneo a creare la soggettività anche in presenza di requisiti diversi da quelli che richiederebbe il diritto consuetudinario negli enti soggetti elementari nonché, secondo le teorie considerate, nelle stesse unioni.

Senonché, la verità che a nostro avviso traspare dalle esitazioni della dottrina dualista dominante e dalia contraddizione in cui essa incorre quando asserisce l’esistenza dell’ordinamento speciale e dubita o nega la soggettività da accordo (anche nei casi in cui essa non appare meno «voluta» che negli altri), è che la tesi dell’idoneità dell’accordo fra Stati a costituire un ordinamento parziale è sostenibile solo nell’ambito della teoria monista, che concepisce pubblicisticamente gli Stati del diritto internazionale e il diritto internazionale stesso. Nell’ambito della teoria dualista, la circostanza che l’accordo sia il prodotto della volontà degli stessi soggetti che ne subiscono gli effetti non va interpretata, come la dottrina inesplicabilmente sente di poter fare, nel senso che i soggetti «legiferano», ma nel senso che essi «contrattano». E chi contratta con i propri pari non crea ordinamenti né soggetti, ma diritti ed obblighi reciproci, relativi a comportamenti determinati o da determinarsi. Non crea né soggetti né ordinamenti, precisamente, per il fatto che non pone norme di diritto eteronomo, e non già perché non pone norme ad efficacia generale. L’istituzione, la persona giuridica internazionale non verrebbe creata nemmeno dall’accordo di tutti gli Stati. Da un accordo del genere deriverebbero bene, dato il concorso universale dei membri della comunità, delle norme ad efficacia soggettivamente illimitata. Ma non deriverebbe ordinamento perché non deriva ordinamento da un contratto. Si potrebbe pensare al pactum societatis o subjectionis. Ma saremmo, in tal caso, su un piano molto diverso da quello positivo sul quale la dottrina in esame si pone. Si ritornerebbe, in sostanza, per le comunità parziali, a quella concezione volontaristica che si è abbandonata sul piano generale[92].

La conclusione negativa[93] s’impone tanto più sicuramente – sempre che si consideri l’accordofonte come negozio (contratto obbligatorio) – quando si pensi che oltre e prima che della soggettività pura e semplice – che già sarebbe, comunque, questione in sé e per sé non diversa da quella della soggettività da accordo di un individuo o di uno «Stato» -, si tratta qui di costituire l’ordinamento dell’ente. Si tratta di costituire, precisamente, un ordinamento parziale che sia giuridico per l’ordinamento internazionale stesso ma diverso da un mero complesso di rapporti obbligatori inter partes ed organizzato almeno in maniera rudimentale.

«Società» può significare varie cose: contratto atipico obbligatorio; contratto tipico a effetti obbligatori; contratto tipico a effetti obbligatori ed assoluti; persona od organizzazione giuridica[94]. Nella prima e nella seconda figura siamo nel campo esclusivo dei rapporti obbligatori: atipici nel primo caso e tipici nel secondo, ed instaurati nel primo caso dalla mera attività autonormativa svolta dalle parti contraenti sulla base di una norma strumentale e nel secondo caso mediante una combinazione di attività autonormativa (creatrice) e meramente condizionante dei privati contraenti con le norme ad hoc di diritto eteronomo. Nel terzo caso si profilano già dei rapporti assoluti che soltanto il diritto «istituzionale» può creare. Nell’ultimo caso – e in questo caso soltanto – siamo in presenza del fenomeno dell’ordinamento parziale e dell’organizzazione giuridica, che si è visto sopra non essere il risultato di mera attività autonormativa dei contraenti. Nella prima figura, sorgono nell’ambito dei soci solo delle normerapporti a carattere paritario, per effetto delle quali, anche se un socio sarà tenuto in certi casi a stare al volere di un altro o della maggioranza, non si presentano situazioni di preminenza di un socio sull’altro né funzioni normative sociali. Nel secondo e nel terzo caso qualcosa di diverso può far capolino per effetto di norme di diritto obbiettivo che costituiscano situazioni di preminenza di determinati soci attribuendo a costoro funzioni normative nei confronti degli altri contraenti: e cominceranno ad esservi situazioni riflettentisi sui «terzi». Sicché ci troviamo in presenza di una misura di «organizzazione giuridica», ma per opera del diritto obbiettivo, che solo è inidoneo a creare – sia pure sulla base di atticondizione dei privati .interessati – situazioni assolute di preminenza. Nell’ultimo caso, infine, abbiamo il vero e proprio ordinamento parziale, la persona giuridica, con lo sviluppo più completo dell’organizzazione sociale in uno statuto[95]. Ma questi effetti ulteriori sono determinati dal diritto obbiettivo.

Orbene, la dottrina dualista che parla di società di Stati, di persone giuridiche internazionali composte di Stati e di ordinamenti parziali, pensa al terzo fenomeno o addirittura all’ultimo. Nello stesso tempo, però, non facendo entrare in funzione alcuna norma eteronoma – come vedremo fare invece al Balladore Pallieri -, essa fa leva esclusivamente non dico su di un mero contratto (che nel secondo caso è più che obbligatorio), ma addirittura sul mero contratto obbligatorio atipico, dimenticando che da questo contratto in sé e per sé non deriva una «società» nemmeno nel secondo senso spiegato[96].

A meno che non si voglia far capo al contratto sociale, dunque, di comunità particolare si potrebbe forse parlare – come si è parlato per alcune di esse – con riferimento alla Respublica Christiana, alla comunità delle Nazioni americane, al Commonwealth britannico e forse anche per la Confederazione svizzera ed il Bund tedesco, se ed in quanto si ammettesse che nell’ambito di questi gruppi di soggetti si fossero formate ed avessero operato per un periodo più o meno lungo delle consuetudini internazionali particolari. Dovrebbe trattarsi, però, di consuetudini di tale natura da caratterizzare questi gruppi rispetto al resto della comunità internazionale in modo diverso e più intenso di come un gruppo di soggetti o un singolo Stato è caratterizzato rispetto agli altri dal fatto di essere entrato o di entrare in certi rapporti giuridici piuttosto che in altri[97]. Fenomeno che, se si è potuto verificare per la Respublica Chiristiana, con la quale numerosi autori fanno coincidere, peraltro, la comunità giuridica internazionale dell’epoca, non sembra dimostrato dagli autori in questione che dubitano della stessa esistenza di consuetudini internazionali particolari[98]. Salvo comunque il caso che questo fenomeno di diritto consuetudinario si verifichi, sia nell’ambito degli altri due gruppi di soggetti ora menzionati, sia nel campo dei gruppi fra i quali, almeno apparentemente, non esistono, dal punto di vista giuridico internazionale, che rapporti contrattuali – sia pure con l’aggiunta di meccanismi quali segretariati, conferenze e consigli dei quali vedremo più avanti la natura -, non ci sembra possano riconoscersi gli estremi della comunità giuridica particolare nelle «unioni » da mero accordofonte in questione. In tutti questi casi, e in particolare in quello della Società delle Nazioni, delle Nazioni Unite, degl’istituti specializzati, delle confederazioni e delle varie «comunità» da accordo menzionate dall’Ago, ci troviamo in presenza di rapporti contrattuali fra gli Stati, se non altro perché non risulta dimostrato che sia entrato in funzione un procedimento idoneo a determinare un effetto internazionalistico diverso. E non è, comunque, tutto qui[99].

19. – Non varrebbe obbiettare, contro i rilievi svolti, che l’accordo internazionale crei un’«organizzazione» almeno nei caso in cui gli organi dell’unione funzionano sulla base del principio della maggioranza. Quella della maggioranza resterebbe sempre una «volontà» alla quale si attribuisce rilevanza maggiore mediante un contratto meramente obbligatorio. Il fatto che i singoli Stati vincolati dal patto di unione siano obbligati a stare alla volontà della maggioranza, come avviene negli organi di certe confederazioni e ora nelle Nazioni Unite ed in numerose Unioni amministrative, è segno – si dice – che si trova realizzata un’organizzazione internazionale[100]. Cadrebbe, infatti, l’obbiezione che gli Stati risultano vincolati in seno all’unione solo se consenzienti. Il rilievo sarebbe tuttavia decisivo, a nostro avviso, soltanto a condizione che in seno all’unione fosse realizzata – sia pure indipendentemente dall’organizzazione di mezzi di coazione – la soggezione dei membri ai «provvedimenti» dell’istituzione. E la soggezione dei membri all’istituzione non può considerarsi realizzata dall’accordo d’unione in sé e per sé[101].

Quanto alle Nazioni Unite ed agl’istituti specializzati, si è parlato di fenomeni di produzione giuridica a proposito della procedura di emendamento dello statuto (artt. 108109) e delle deliberazioni dell’Assemblea sui contributi dei membri. Questa tesi è sostenibile, tuttavia, solo nell’ambito d’una concezione come quella del Balladore Pallieri[102], che ipotizza l’esistenza d’una norma consuetudinaria che legittimi l’unione: ed anche in questo caso con tutte le riserve alle quali vedremo andar soggetta questa teoria dal punto di vista degli enti fra i quali l’organizzazione sussisterebbe[103]. Ma sino a quando i fenomeni di produzione giuridica debbano trovare la loro fonte in un contratto obbligatorio e non in una norma emanante da una istituzione (come nel caso nostro sarebbe l’eventuale norma consuetudinaria), i procedimenti in questione non si differenziano qualitativamente da quelli dell’arbitrato libero e dell’arbitramento interno. Il fatto che si tratti di Stati darà maggior solennità e soprattutto maggior portata politica al procedimento: ma dato che si tratta di Stati dall’una e dall’altra parte, e proprio perché sono in gioco questioni di .maggiore portata dei conflitti d’interessi fra individui, il fenomeno, mutatis mutandis, resta lo stesso.

Si potrebbe sfuggire a questa conclusione in due modi: o ponendosi sul terreno della dottrina monista; oppure facendo leva sul fatto che dalla parte della maggioranza c’è il maggior peso della forza o il peso delle Grandi Potenze. Ma a parte il primo caso, che escludiamo, il secondo corrisponde come vedremo a un fenomeno egemonico che, comunque venga definito, è nettamente distinto dal patto e dal meccanismo che vi si ricollega[104].

Il valore giuridico delle disposizioni dello Statuto è quello di normerapporti (oggettivamente concreti o astratti) di natura obbligatoria. Le norme che adottano il criterio della maggioranza semplice o più o meno qualificata (al pari di quelle che adottano criteri diversi) si concretano, rispetto a ciascun soggetto, nell’obbligazione di fare o non fare quanto sarà stabilito in determinate circostanze da determinate pronunce di certi collegi. Lo Stato che si sottragga all’obbligo, quindi, rimane un contraente inadempiente, ovvero, come si diceva ai tempi della SdN, «en rupture du Pacte». E chi non sta ai patti toglie ogni valore, con il solo fatto dell’inadempimento, all’obbligo assunto: «rompe» – per l’appunto – il Patto[105].

Non cerchiamo, intendiamoci, la «forza» – che è un altro punto sul quale la dottrina non è nel giusto quando si aspetta miracoli dalla disponibilità di forze armate da parte delle Nazioni Unite[106]; cerchiamo quel minimo che è il fenomeno istituzionale eteronomo e che si trova nel diritto internazionale non scritto: la norma di diritto obbiettivo o il «provvedimento»[107]. E perché un qualsiasi ente (dato o creato appositamente) possa emanare validamente «provvedimenti» nell’ambito della comunità internazionale quale è attualmente costituita, è necessaria la subjecto dei soggetti. È necessario che quel «potere» sia stabilito da una norma eteronoma che l’accordofonte non è idoneo a porre. È necessario che esista quel fenomeno obbiettivo che è l’istituzione. Ma se è istituzione la comunità internazionale stessa – nonostante il suo carattere di unione «semplice»[108] – perché è in essa attuata la produzione di diritto eteronomo (consuetudine), non è tale il contratto di unione. Che è la stessa ragione per cui a nostro avviso non si hanno giurisdizione né produzione giuridica di terzo grado sulla base di meri accordi [109].

20. – Nemmeno varrebbe obbiettare, contro la tesi sostenuta, che nel caso degli accordi di unione saremmo in presenza di atti forniti di portata speciale in quanto contratti plurilaterali, ovvero in quanto contratti di organizzazione («statuti» o «carte» ).

a) La prima idea (plurilateralità) si trova frequentemente utilizzata dalla dottrina in sostituzione o in applicazione esplicita o implicita della vecchia distinzione fra trattatilegge e trattati-contratto. Essa poggia, più che sulla concezione pubblicistica dell’accordo internazionale, sulle improprietà in cui incorre la stessa dottrina civilistica, sia quando non distingue, come s’è visto, gli «effetti» giuridici strettamente contrattualiobbligatori (contratto atipico) dagli effetti legislativinegoziali tipici, sia quando confonde i contratti privati a contenuto astratto od a carattere aperto o plurilaterali con le convenzioni pubblicistiche ad effetti eteronomi come i contratti collettivi. Improprietà, entrambe, che, se non hanno alcuna conseguenza nel campo del diritto interno, portano evidentemente inconvenienti dati molto rilevanti nel diritto internazionale. Le idee civilistiche per noi più pericolose, da questo punto di vista, sono alcuni equivoci piuttosto diffusi intorno al valore «normativo» o meglio «più che negoziale» degli «accordi» e dei «contratti plurilaterali», che gli stessi civilisti e pubblicisti interni sogliono collegare al concetto dei trattati in genere come «accordi normativi» ed alla distinzione, ormai in disuso, tra trattatilegge e trattaticontratto.

L’idea che gli «accordi» ed i «contratti plurilaterali» siano qualcosa di più dei contratti bilaterali comuni è senza dubbio esatta quando si ponga la ragione del maggior valore – come implicitamente o esplicitamente non sempre fanno i civilisti – nella circostanza che si tratta di atti tipici, contemplati specificamente da norme legislative o consuetudinarie che attribuiscano loro il valore costitutivo di rapporti che primeggiano su eventuali stipulazioni future non conformi all’«accordo» direttamente o indirettamente concluso in via preliminare, oppure l’idoneità a determinare l’esistenza d’una «organizzazione», ossia di uno strumento di attività coordinata e di nuovo regolamento futuro di rapporti fra i soci. Essa comincia a non essere più sostenibile, però, quando si attribuisca il maggior valore – come si è fatto e si fa tuttora da alcuni autorevoli giuristi – alla circostanza che le parti nell’«accordo» tendano a regolare alcuni loro rapporti futuri o dei conflitti d’interessi previsti in astratto, oppure al fatto che le parti nell’accordo o nel contratto plurilaterale o di organizzazione si trovino in rapporto di coordinamento o di parallelismo di fini anziché in conflitto d’interessi, o ancora alla circostanza che all’accordo partecipino più di due soggetti.

In un contratto obbligatorio atipico, il fatto che fossero contemplate più ipotesi di funzionamento del vincolo non conferirebbe portata maggiore all’atto. Questo non produrrebbe certo effetti più affini a quelli della legge o meno affini a quelli degli altri contratti atipici solo perché trovasse applicazione più frequente nei rapporti fra i contraenti. L’efficacia maggiore deriverà eventualmente dalle norme di legge che conferiscano alle disposizioni dell’accordo effetti assoluti rispetto alle stipulazioni future o nei confronti di terzi. Quanto agli altri due elementi differenziali, quello numerico scompare di fronte al rilievo che, fino a quando non si esca dalla figura ipotizzata, il numero dei soggetti contraenti è del tutto irrilevante per la portata degli effetti, e l’altro è del tutto insussistente per due ragioni. Innanzi tutto non è vero, come è stato autorevolmente notato, che nel contratto di società non vi sia un conflitto d’interessi analogo a quello che i soggetti tendono a comporre con qualsiasi altro contratto. In realtà, un conflitto d’interessi sussiste normalmente sia all’atto della stipulazione del contratto – nella distribuzione degli oneri e dei profitti -, sia nel corso dell’esecuzione delle prestazioni pattuite[110]. E noi aggiungeremmo che quel che vale per la società di persone determinate, vale anche per le associazioni, perché da un lato non è escluso che un conflitto d’interessi più o meno diretto sussista anche in questo caso al momento dell’atto costitutivo, e dall’altro lato il conflitto d’interessi va cercato in ogni atto bi- o plurilaterale in quell’elemento o aspetto dell’atto che per il fine cui esso è diretto assume maggior rilevanza. Ed è naturale che in un atto a fini strumentali ed interessanti un numero indefinito di persone, il conflitto d’interessi fra gli autori possa sussistere soltanto in ordine alla scelta dei mezzi e dei fini[111] ed all’influenza diretta che la scelta può determinare sulla situazione attuale dei contraenti e sull’attuazione dei loro interessi o aspirazioni in ordine alle materie sulle quali l’associazione dovrà far sentire in futuro la sua azione. In secondo luogo, il fatto che il conflitto d’interessi sussista o non sussista o sussista in maggiori o minori proporzioni non muta certo il valore delle determinazioni dei soggetti partecipanti all’atto. Il valore giuridico relativo o assoluto e soprattutto la portata meramente obbligatoria o costitutiva dell’atto – ed eventualmente costitutiva di effetti quali la soggettività, l’organizzazione parziale ed i poteri degli agenti dell’ente verso l’esterno e nei confronti dei soci – son determinati dalla qualificazione specifica dell’atto da parte di norme di «diritto obbiettivo» ed eteronomo («tipizzazione»), non dal fatto che gli interessi dei contraenti coincidano o siano in conflitto più o meno attuale[112].

Tanto più insostenibile appare la differenziazione fra gli accordi sulla base di elementi del genere, quando ci si ponga sul piano dell’ordinamento internazionale[113]. Da un lato infatti l’influenza della convergenza d’interessi e della plurilateralità dovrebb’essere incomparabilmente maggiore, per compensare il difetto di norme eteronome specifiche che attribuiscano al «patto», allo «statuto» od alla «costituzione» l’’idoneità a determinare l’effetto auspicato. Dall’altro lato, le caratteristiche dell’ordinamento internazionale sono tali da ridurre gli elementi stessi in tal misura da farli addirittura scomparire del tutto.

Quanto alla plurilateralità in sé e per sé, in mancanza di norme ad hoc che le conferiscano un valore specifico, il trattato plurilaterale non è diverso da una somma di trattati bilaterali. Sta di fatto, comunque, che vi sono accordi particolari che si collegano ad una «unione» molto più stretta di quella che corrisponde a molti accordi plurilaterali e magari tendenti all’universalità. Senza nemmeno arrivare agli accordi di protettorato e d’incorporazione, c’istruisce in proposito l’esempio – ricordato da uno degli autori citati – dei paesi dell’Europa orientale. È proprio vero che gli accordi bilaterali tra l’URSS e i c. d. «satelliti» d’Europa e d’Asia corrispondono ad una unione meno stretta di quella che corrisponde, per es., allo Statuto del Consiglio d’Europa? Ed è proprio vero che quest’ultimo costituisce fra gli Stati europei occidentali un vincolo più stretto di quello che avvince questi stessi Stati fra di loro in virtù del patto atlantico?

È invece più probabile, a nostro avviso, specie rispetto al primo confronto, che, sia quell’elemento istituzionale interstatuale che deriva dall’azione egemonica della potenza «leader» – e che vedremo costituire in un certo senso il solo eventuale fenomeno di organizzazione internazionale in senso proprio -, sia quel fenomeno preparatorio di una unione federale che vedremo manifestarsi o non manifestarsi nei meccanismi interindividuali costituenti i c. d. «organi» delle unioni, siano più accentuati nei rapporti fra gli Stati del mondo orientale sotto la «guida» del Cominform, che non in seno alla «comunità europea»o «atlantica»[114]. E questo nonostante il fatto che i rapporti fra questi ultimi siano governati da accordi plurilaterali mentre l’URSS ed i «satelliti» son legati solo da trattati bilaterali. Basti pensare che la potenza «guida» o almeno il meccanismo dell’«unione» orientale ha fra l’altro il compito tutt’altro che indifferente di pronunciarsi sulla rispondenza o meno dei regimi dei paesi orientali a certi principi[115]. Che è un modo di decidere di quella legittimità degli ordinamenti degli Stati affiliati, sulla quale non son chiamati a pronunciarsi gli organi delle eventuali «unioni» occidentali e, almeno in via di principio, neppure le diete confederali.

Quanto alla convergenza d’interessi, il carattere complesso dei soggetti e delle situazioni ed il carattere relativamente permanente degli «Stati» e dei loro interessi fanno sì che vi sia ben poca differenza fra un trattato di commercio o di stabilimento o un trattato di regolamento della pesca nelle rispettive acque territoriali e lo «statuto» d’una unione internazionale, almeno del tipo delle unioni a tendenza universalistica o «aperte»[116]. Sarebbe ingenuo credere, p. es., che i conflitti d’interessi fra le Nazioni dell’alleanza anti-nazista (o almeno fra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica) si sian fatti sentire in maniera meno acuta a San Francisco di quanto si siano fatti sentire in occasione della stipulazione di accordi«contratto» come l’alleanza o un trattato di commercio. Né è proprio detto che la minore tensione del conflitto d’interessi implichi necessariamente un valore maggiore delle norme poste dall’atto. La maggiore arrendevolezza potrebb’essere anche il segno dell’interesse relativamente minore portato dai contraenti agli impegni assunti. E come si spiega, poi, il fatto che la dottrina sia tanto prodiga nel riconoscere il valore più che negoziale delle unioni proprio di fronte a quegli «accordi di unione» nei quali i conflitti d’interessi son più evidenti e più gravi (come il Patto della SdN e lo Statuto delle Nazioni Unite), mentre lesina lo stesso riconoscimento ad unioni come quella postale, che è certamente fondata su convergenze d’interessi più sicure e permanenti?[117].

b) Quanto all’elemento «organizzazione», sul quale c’intratterremo ampiamente nel capitolo che segue dal punto di vista degli enti che lo compongono per dimostrarne il valore negativo agli effetti dell’esistenza d’un fenomeno di organizzazione giuridica internazionale corrispondente all’unione, la dottrina fa leva su di esso, tra l’altro, come su un elemento d’integrazione dell’accordo d’unione, per far salvo il fenomeno di soggettività e quell’ordinamento o quell’organizzazione giuridica parziale, che l’accordo non è idoneo a produrre di per sé e senza i quali non si darebbe una persona giuridica.

Avvertendo implicitamente, forse, l’inidoneità dell’accordo a produrre di per sé l’ordinamento interno d’un organismo al quale non è idoneo ad attribuire la soggettività giuridica – ed escludendo, nello stesso tempo, l’esistenza d’una norma consuetudinaria ad hoc come quella ipotizzata dal Balladore Pallieri – un numero notevole di autori crede di poter superare la difficoltà che denunciamo facendo leva sulla concezione della persona giuridica come «ente reale» e sdoppiando il problema nella soggettività da una parte e nell’ordinamento od organizzazione giuridica dall’altra. Operando come contratto obbligatorio, l’accordo d’unione determinerebbe indirettamente – attraverso l’adempimento da parte degli Stati dell’obbligo di costituire certi meccanismi – l’esistenza d’un «ente reale». Costituito l’ente reale, poi – e una volta che questo avesse raggiunto un certo grado di effettività -, le norme generali dell’ordinamento eleverebbero l’ente a soggetto secondo le regole valevoli per tutti gli altri enti primari: superandosi così la difficoltà costituita dall’idoneità dell’accordo a creare il soggetto. Poiché, d’altra parte, l’ente reale risulterebbe «internazionalmente» organizzato – si aggiunge -, ci troveremmo in presenza d’una persona giuridica o d’una «istituzione» internazionale in senso proprio, in tutto e per tutto analoga agli enti morali pubblici e privati del diritto interno. Secondo il Romano ed il Quadri, per esempio – ma si tratta di una dottrina diffusissima fra i teorici dualisti delle unioni non meno che fra quelli monisti -, allo stesso modo come il contratto interno di società darebbe luogo, nel1a sua attuazione, all’esistenza della società come «ente reale», al quale poi l’ordinamento attribuirebbe la personalità giuridica, così l’accordo di unione, attuandosi, determinerebbe l’esistenza d’un ente reale al quale il diritto non scritto attribuirebbe la soggettività giuridica. Nello stesso tempo, «avendo ogni unione internazionale un proprio ordinamento interno che… deve riguardarsi come derivazione di quello internazionale e, quindi, internazionale esso stesso (in base al principio che nel mondo del diritto «derivare» equivale ad «essere»), vicino al problema della personalità a titolo primario delle unioni internazionali si dovrà porre anche quello della personalità a titolo secondario in relazione al particolare loro ordinamento»[118]. Da una parte verrebbe l’ente, insomma, con l’ordinamento «particolare», e dall’altra la soggettività. E il risultato sarebbe l’«ente soggetto diverso dagli Stati membri», ossia la «persona giuridica internazionale» composta di Stati. L’accordo, inidoneo a creare l’effetto assoluto «soggettività», determinerebbe indirettamente l’esistenza dell’ente reale e l’esistenza dell’ordinamento parziale. Alla soggettività, invece, provvederebbero le norme generali.

A nostro avviso questo ragionamento si regge solo sulla base effimera costituita da una falsa nozione dell’atto costitutivo dell’ente morale in diritto interno, e da un collegamento assolutamente indimostrato fra l’ordinamento interno dell’unione e l’ordinamento internazionale.

Quanto al fenomeno di diritto interno, non ci sembra esatto che l’atto costitutivo d’una società determini soltanto degli obblighi, la cui attuazione porti alla formazione d’un «ente reale», che l’ordinamento eleverà poi a soggetto secondo regole generali o speciali. L’atto costitutivo, integrato dal riconoscimento o dalle formalità prescritte – a seconda che si tratti di una associazione o d’una società commerciale -, pone in essere in innanzi tutto lo statuto dell’«ente», come ordinamento parziale. Ed è in attuazione di questo ordinamento, non in attuazione d’un mero contratto obbligatorio, che si costituisce l’«ente reale». Quanto alla soggettività, poi, essa viene logicamente in un momento successivo e non in un momento anteriore all’istituzione dell’ordinamento parziale. E non è il caso di stare a discutere ai fini presenti se essa faccia capo all’«ente reale» o a qualcosa di diverso[119]. Quello che qui interessa è che l’ordinamento parziale si costituisce come effetto automatico di legge occasionato dall’atto costitutivo e non come effetto dell’organizzazione effettiva, anche se questa si sia formata eventualmente prima dell’atto costitutivo. Ed è per questo, non perché esso derivi dall’organizzazione attuata in adempimento del contratto, che l’ordinamento giuridico dell’ente è «derivato» dall’ordinamento statuale. Se fosse l’organizzazione a produrlo, si tratterebbe di un ordinamento originario. Per l’ordinamento interno dell’unione vale esattamente la stessa cosa, con la differenza che non c’è la norma di diritto obbiettivo che conferisca all’accordo quell’effetto costitutivo dell’ordinamento derivato, che il Quadri attribuisce senz’altro all’accordo stesso in quanto atto di produzione giuridica integrato dall’organizzazione effettiva[120].

La giuridicità internazionale dell’ordinamento dell’unione – salvo che si accetti la teoria del Balladore Pallieri – non potrebbe poggiare che sull’accordo costitutivo, perché l’organizzazione in sé e per sé non importa l’esistenza d’un ordinamento derivato più di quanto l’importi nel caso d’uno Stato. I casi, sono quindi due. O si ammette ch’e il valore dell’accordo è superiore a quello d’un contratto obbligatorio, ed allora non vi sarà nessuna difficoltà ad ammettere che ne derivi un effetto assoluto come l’esistenza d’un ordinamento parziale fra i membri[121]. Oppure si nega quel maggior valore dell’accordo, ed allora non è esatto parlare di ordinamento derivato. Un dualista come il Quadri, che appunto come tale aveva sostenuto in un primo tempo l’idea opposta[122], dovrebbe essere il primo ad avvedersi che la sola via che il dualista possa seguire è la seconda. Pei monisti esiste da un lato una norma generale di legittimazione degli Stati (effettività) come enti pubblici od organi della comunità internazionale, e dall’altro l’idoneità dell’accordo, in quanto atto di diritto pubblico, a legittimare ordinamenti statuali o non statuali. Per i dualisti quella norma generale di legittimazione non esiste. Ma se non esiste tale norma, gli Stati sono per il diritto internazionale dei semplici «privati» e l’accordo fra gli Stati non è idoneo a produrre ordinamenti, né statuali né interstatuali. E sin qui non si è considerato il fenomeno che sotto l’aspetto dell’idoneità della fonte a determinare l’esistenza. Più avanti vedremo che, anche se la fonte fosse idonea – come sarebbe il caso secondo la teoria del Balladore Pallieri -, il fenomeno d’organizzazione giuridica internazionale mancherebbe lo stesso nell’ordinamento interno dell’unione.

La prova migliore che i termini con i quali si sogliono designare gli accordi d’unione non corrispondono al fenomeno reale sta del resto nel fatto che non pochi autori finiscono per attribuire alle «società» ed alle «costituzioni» quei difetti che si trovano invece negli atti in questione, proprio perché essi non corrispondono affatto ad atti costitutivi di società o di unioni[123].

§ II. – La teoria dell’istituzione internazionale

da «jus non scriptum»

Sommario: 21. La teoria dell’unione come fenomeno di diritto internazionale consuetudinario. L’accordo come atto costitutivo qualificato da una norma di jus non scriptum. Sostenibilità teoretica della costruzione. – 22. Difetto di dimostrazione e inverosimiglianza della teoria. Rinvio.

21. – Di gran lunga più persuasiva, almeno dal punto di vista della fonte del fenomeno, sembrerebbe la teoria di minoranza che fa entrare in funzione, insieme con l’accordo, la consuetudine, sia agli effetti della soggettività, sia – almeno per noi – agli effetti di quell’ordinamento parziale che si è detto costituire l’elemento veramente essenziale dell’organizzazione. Questa teoria non ci sembra peraltro soddisfacente, per le ragioni che vedremo, né dal punto di vista della dimostrazione della norma in questione, né dal punto di vista del risultato che dal funzionamento della norma stessa dovrebbe derivare. Elementi negativi, questi, dei quali consideriamo per il momento soltanto il primo, giacché il secondo attiene a quell’aspetto organizzativo-istituzionale del problema che verrà in esame nel capitolo seguente. Ma è bene cominciare con l’elemento a nostro avviso positivo della teoria, che è dovuta, come s’è visto, al Balladore Pallieri.

In linea teoretica, questa dottrina è accettabile proprio perché essa costruisce il fenomeno in modo profondamente diverso dalla dottrina dominante ed anzi nel solo modo in cui esso potrebbe verificarsi o essersi verificato. Quando infatti si configurano delle norme consuetudinarie che connettano a certi atti dei soggetti l’effetto della costituzione di un nuovo soggetto o di un ordinamento parziale a vincolo associativo più stretto o addirittura di tipo gerarchico, si parte da una nozione positiva del fenomeno della persona giuridica e se ne rispettano le esigenze.

La norma consuetudinaria sarebbe perfettamente idonea – in teoria – a determinare i due effetti giuridici in questione, in quanto svolgerebbe la funzione che, nel caso delle persone giuridiche interne, è adempiuta dalla costituzione, dalla legge e dagli atti ad hoc dell’autorità costituita quando determinano – eventualmente sulla base di atti di privati – l’esistenza della comunità giuridica parziale e del soggetto artificiale. La norma consuetudinaria sarebbe idonea a determinare questo effetto, d’altra parte, non già in quanto norma generale, perché potrebbe ben trattarsi, in ipotesi, di una norma ad hoc (e non necessariamente anteriore all’accordo), ma in quanto norma eteronoma[124]. E rispetto ad una norma o ad un gruppo di norme siffatte, l’accordo funzionerebbe come negoziocondizione o atto giuridico in senso stretto, costituente, da solo o insieme con altri elementi, la fattispecie prevista dalla norma o dalle norme eteronome in questione per la produzione degli effetti da esse disposti, quale che possa essere, eventualmente, l’ampiezza dell’autonomia dei contraenti nell’ambito del «tipo» predisposto. L’essenziale, dal nostro punto di vista, è che l’accordo internazionale non funziona, nell’ambito di questa costruzione, da mero strumento di produzione giuridica contemplato dalla norma pacta sunt servanda. I soggetti «costitutori» eserciterebbero, sì, la loro autonomia nel determinare gli scopi, l’organizzazione e l’attività dell’unione, ma questa sarebbe prevista o comunque disciplinata come «tipo» dal diritto «obbiettivo». L’autonomia spazierebbe probabilmente in un ambito considerevolmente più esteso di quello in cui spaziano i costitutori. e i fondatori di associazioni e fondazioni nel diritto interno e specialmente di quelle più tassativamente previste dalla legge, come le società commerciali. Ma è chiaro che non si intende parlare dei due effetti essenziali in questione come determinati dal mero accordo in funzione di strumento di produzione di norme inter partes. È evidente, dunque, che questa teoria costituisce, così intesa – a parte il merito della coerenza logica -, un argomento a noi favorevole nei confronti delle teorie che fanno leva sul mero accordo per la costituzione di ordinamenti, comunità giuridiche od istituzioni internazionali. La necessità, riconosciuta da questa dottrina, di ricorrere ad una norma consuetudinaria ci autorizza, quindi – se non erriamo nell’interpretazione del suo pensiero -, a valerci senz’altro dell’autorità del Balladore Pallieri almeno al fine specifico di dimostrare l’inidoneità dell’accordofonte a realizzare certi effetti.

22. – La stessa teoria va tuttavia incontro per altro verso, sempre dal punto di vista della fonte che utilizza – e a parte le riserve ulteriori che vedremo nel capitolo seguente -, all’obbiezione che l’esistenza della norma consuetudinaria in questione appare estremamente improbabile[125] alla luce delle caratteristiche dell’ordinamento internazionale. Essa non sembra per giunta dimostrata dall’a. citato con alcun argomento diverso dalla constatazione della stipulazione, da parte degli Stati, di accordi di «unione». Argomento che a nostro modesto avviso non regge al confronto con l’inverosimiglianza del fenomeno e le difficoltà che vedremo.

Non va dimenticato, infatti, a proposito di questa costruzione, che essa presuppone l’esistenza, nell’ordinamento internazionale, dell’«istituto» dell’«unione» in generale, ovvero l’esistenza di altrettanti «istituti» giuridici internazionali quanti sono i tipi di unioni di cui si ammetta l’esistenza come ordinamenti parziali e soggetti distinti. Essa presuppone, in altri termini, che l’ordinamento internazionale consuetudinario voglia esso stessa le unioni come ordinamenti parziali o tendenzialmente universali, ed i soggetti corrispondenti: voglia cioè l’organizzazione di comunità giuridiche parziali più o meno ampie. Che ciò rientri nell’ordine delle possibilità logiche non mettiamo minimamente in dubbio. Ma rientra ugualmente nell’ordine delle possibilità pratiche?

È senza dubbio teoreticamente concepibile che il fenomeno dell’organizzazione (comunità giuridica parziale) si verifichi sulla base di norme eteronome nell’ambito di qualsiasi comunità giuridica. È molto difficile tuttavia ammetterne l’esistenza se si considerino le caratteristiche specifiche della società degli «Stati». Quando si parte – come fa la scuola italiana – dall’idea che questa società si presenta con tutte le caratteristiche d’una comunità disorganizzata, tendenzialmente anarchica e via dicendo[126], è molto difficile ammettere che, nell’ambito del diritto internazionale consuetudinario, esistano norme che ricolleghino al fatto che due o più Stati si accordino per costituire una «organizzazione» l’effetto dell’esistenza di un ordinamento parziale organizzato gerarchicamente o quasi gerarchicamente. E la difficoltà, si badi bene, diventa sempre maggiore man mano che dalle unioni amministrative e particolarissime si passa alle unioni aperte a tendenza universalistica ed a «funzioni» generali, che sono proprio gli enti ai quali più si pensa come a soggetti ed ordinamenti speciali. È concepibile, domandiamo, che un ordinamento che tutti riconoscono paritario[127], nel quale «l’uguaglianza» sarebbe elevata a «principio ispiratore»[128], e la cui «costituzione» è fondata su questo principio[129], contempli, a priori od a posteriori, degli istituti come la «Società delle Nazioni» o le «Nazioni Unite»? Lasciamo stare pure la questione se per caso esso non voglia, purtroppo, addirittura il contrario. Ma è concepibile un atteggiamento positivo?

Dato che il punto richiederebbe più ampio svolgimento, ci limitiamo per ora ad aggiungere alla formulazione del dubbio una risposta provvisoria. Che se l’ordinamento internazionale volesse le Nazioni Unite, e le volesse provviste soltanto di quei pochi poteri che lo Statuto da solo non riesce ad attribuire all’organizzazione, il mondo sarebbe molto diverso da quel che sembra; e con esso sarebbe molto diverso l’ordinamento internazionale tutto intero[130]. E questo sempre prescindendo dal fatto che è molto dubbio, come vedremo nel capitolo seguente, che il risultato prodotto dall’eventuale norma consuetudinaria sarebbe una organizzazione internazionale alla stregua della teoria dualista che l’autore citato tiene ferma[131].

Ma prima di spingere oltre la discussione su questo punto conviene domandarsi se ed in che senso, posto pure che entrasse in funzione una fonte idonea, si possa parlare di un’organizzazione giuridica interstatuale sul piano del diritto internazionale quale la dottrina dualista se lo raffigura. Sul problema della fonte ci converrà ritornare eventualmente dopo, contentandoci per il momento del dato accertato dell’inidoneità dell’accordo in sé e per sé a determinare organizzazione e soggettività giuridica.

IV

LA NATURA COMPLESSA DEGLI ENTI SOGGETTI DIRETTI

E L’ELEMENTO ISTITUZIONALE DELLE UNIONI

§ 1. – L’elemento istituzionale dell’unione nella teoria dualista

e nella teoria monista dell’ordinamento internazionale

Sommario: 23. La concezione dualista dell’ordinamento internazionale e degli enti soggetti elementari e l’elemento organico-istituzionale dell’unione. Ragioni che escludono il carattere giuridico-internazionale dell’organizzazione effettiva dell’unione. Necessità di vagliare a fondo la differenza fra la concezione monista e quella dualista a tale riguardo. – 24. La concezione pubblicistica e interindividualista dei monisti. Possibilità che per essa sussiste d’inquadrare i fenomeni di c.d. organizzazione internazionale come processi di accentramento dell’ordinamento internazionale. Importanza particolare della concezione degl’individui come soggetti per la teoria del «governo internazionale». – 25. Caratteristiche della concezione dualista sotto il profilo della teoria delle unioni. Condizioni alle quali si potrebbe parlare di organizzazione internazionale nell’ambito di questa concezione (egemonia). Impossibilità di qualificare come fenomeni di organizzazione internazionale gli organismi interindividuali costituiti in attuazione degli accordi d’unione. Individuazione della ragione di tale impossibilità nel difetto di soggettività internazionale degl’individui e nel difetto di giuridicità internazionale degli «ordinamenti interni» degli enti in questione.

23. – Se dal punto di vista della fonte l’organizzazione di unioni è resa problematica dalla probabile assenza o dal mancato funzionamento d’un fatto di produzione giuridica idoneo, dal punto di vista dell’ambiente in cui l’unione dovrebbe costituirsi il fenomeno è complicato enormemente dal carattere paritario ed interstatuale dell’ordinamento internazionale quale noi dualisti l’intendiamo. Anche da questo punto di vista, come da quello della portata dell’accordo, sussiste una differenza profonda fra monisti e dualisti, determinata dalla diversa opinione ch’essi professano, o dovrebbero professare circa la natura degli enti soggetti e dell’ordinamento, e di cui specialmente i secondi non sembrano apprezzare il significato. I primi, al solito, hanno le cose enormemente facilitate dalla nozione interindividualistica dell’ordinamento internazionale da cui partono. I secondi, per parte loro, non si rendono pienamente conto di quanto sia difficile concepire delle associazioni o società che a rigore dovrebbero avere come componenti, ossia come membri e soprattutto come. agenti, quegli Stati che essi considerano come i soggetti elementari di un ordinamento paritario, e che assorbono completamente in sé stessi, agli effetti giuridici internazionali, gl’individui membri. Individui senza i quali l’«ente internazionale» non potrebbe invece operare. ..

L’idea più o meno esplicita degli scrittori dualisti è che le unioni di Stati costituite da mero accordo o da norme consuetudinarie stiano ai singoli stati membri come un’associazione o una società di diritto interno sta agl’individui che ne fanno parte. Gli Stati membri, intesi come gruppi chiusi all’azione del diritto internazionale e come organizzazioni date per l’ordinamento internazionale, si «organizzerebbero» internazionalmente fra loro nell’unione un po’ come gl’individui, enti soggetti elementari del diritto interno, si organizzano fra loro in un ordinamento interindividuale parziale «derivato» da quello statale. Gli Stati apparirebbero, da questo punto di vista, come delle specie di organismi antropomorfi, unitari dal punto di vista dell’ordinamento che ne regola le relazioni esterne, e si muoverebbero, entro l’associazione, come gli individui si muovono entro le persone giuridiche interne. Nello stabilire questo superficiale parallelismo, però, la dottrina dualista non s’accorge che, se è possibile concepire in teoria gli Stati facenti parte dell’unione nella loro unità storicosociale prescindendo dagli individui che li compongono e che operano al di fuori dell’ordinamento interstatuale, non si può fare a meno degli individui quando si tratta di costituire gli «organi» dell’unione. E ciò determina due grosse difficoltà di cui i teorici dualisti non si avvedono perché son fuorviati dalla concezione organicistica degli enti morali.

La prima difficoltà sta nel fatto che, non essendo gl’individui soggetti di diritto internazionale, l’unione dovrebbe agire sul piano suo proprio attraverso l’opera di enti la cui attività resterebbe di per sé giuridicamente irrilevante per l’ordinamento internazionale stesso. La seconda è che le norme regolatrici dell’attività degl’individui preposti ai vari uffici dell’unione sarebbero norme di diritto interindividuale e come tali, a prescindere dal fatto che l’accordo non è idoneo comunque a porle, non avrebbero nulla in comune con l’ordinamento nell’ambito del quale l’unione dovrebbe sussistere come organizzazione giuridica parziale. Questo significa che non esiste una persona giuridica internazionale composta di Stati, né secondo la falsa concezione organicistica degli enti morali, né secondo la concezione giuridica di questo fenomeno che a noi sembra più esatta.

Non esisterebbe la persona composta materialmente di Stati nel senso in cui sarebbe composta d’individui una società commerciale intesa organicisticamente, perché è ovvio, per quanto sia orribile a dirsi, che l’ente composto di Stati in questo senso sarebbe realizzato per noi dualisti solo quando gli Stati «membri» si trovassero giuridicamente composti in una mostruosa ed assurda piramide di enti sovrumani presi ciascuno nella sua unità storicosociale[132]. Il che è assolutamente inconcepibile, perché l’instaurazione d’una simile organizzazione gerarchica di enti collettivi potrebbe soltanto significare la confusione in un super-Stato degl’individui membri dei vari Stati in unione. SuperStato che non sarebbe evidentemente più una «associazione di Stati» separati e distinti nel senso dualista.

Non esisterebbe d’altra parte la persona giuridica intesa come ente giuridico internazionale, perché l’ente reale corrispondente all’unione viene a costituire una istituzione interindividuale retta da un ordinamento che non solo non si potrebbe considerare giuridicamente «derivato» dall’ordinamento della società interstatuale – per l’inidoneità dell’accordo a determinare ordinamento derivato e soggettività d’individui -, ma regolerebbe rapporti fra individui anziché fra Stati.

A seconda del grado di sviluppo del fenomeno, insomma, esisterebbe o un ente soggetto elementare dell’ordinamento internazionale corrispondente agli «organi» dell’unione, oppure l’ente soggetto elementare risultante da un processo di assorbimento o fusione fra i due o più Stati in unione, oppure ancora, nella ipotesi estrema di unione fra tutti gli Stati esistenti, quella civitas maxima interindividuale che segnerebbe la fine dell’ordinamento internazionale quale noi dualisti l’intendiamo. Ma ciò può risultare in modo chiaro solo dall’esatta percezione della profonda diversità sussistente tra la concezione dualista e quella monista nell’impostazione del problema.

24. – Quale che sia la sua rispondenza alla realtà giuridica internazionale[133], la corrente monista concepisce – come già si è detto – l’ordinamento internazionale come quello che sovrasterebbe alle istituzioni «Stati», intese come ordinamenti (Kelsen) o almeno comunità giuridiche (Verdross) interindividuali: come delle comunità, cioè, entro le quali «circola», se ci si consente l’espressione, un diritto che fa parte dell’unico sistema giuridico dell’umanità e si pone come derivato rispetto a quello internazionale «in senso stretto». Gli Stati, appaiono come organi decentrati della comunità internazionale. E gli accordi fra Stati appaiono come le norme poste da organi della comunità medesima, operanti, sia pure indirettamente, nei confronti dei singoli individuimembri delle comunità parziali.

Nell’ambito di una concezione siffatta, è logico concepire, almeno in teoria, le varie forme di unione come organi ulteriori della comunità internazionale, posti in essere dagli organi decentrati (Stati). È logico pensare, p. es., non solo alle Confederazioni[134], alla Società delle Nazioni[135] ed alle Nazioni Unite[136], ma alle stesse unioni amministrative[137] come ad uffici od organi della comunità internazionale interindividuale o di determinate sue parti, intesi a realizzare il maggior accentramento auspicato conferendo a individui, direttamente o indirettamente, funzioni di governo ed amministrazione internazionale sostanzialmente non diverse dalle funzioni governative svolte dagli individui preposti agli uffici statali. Ed è anche esatto pensare a qualsiasi accordo fra Stati come ad un diritto pubblico interistituzionale ed in questo senso ad una «unione» fra Stati[138]. Le unioni andrebbero qualificate nell’ambito di questa concezione, come organi infra-istituzionali se non supraistituzionali della comunità giuridica[139].

Dal punto di vista monista, lo sviluppo delle unioni parziali nel senso di una maggior coesione appare come lo sviluppo in senso più accentrato di una parte dell’ordinamento internazionale. Il passaggio dalla confederazione allo Stato federale, che per il dualista significa cessazione del vigore del diritto paritario fra un gruppo di soggetti, significa per il monista «progresso» dell’ordinamento internazionale stesso nell’ambito regionale. Anziché un ritrarsi vero e proprio dell’ordinamento internazionale, si avrebbe in un certo senso il suo sviluppo, o meglio il suo progresso parziale verso forme più accentrate. E l’eventuale sviluppo di unioni a tendenza universalistica non sarebbe che il progresso dell’intero ordinamento internazionale verso una forma più accentrata. Là dove il dualista, se coerente, dovrebbe vedere l’organizzazione dei soggetti di base dell’ordinamento internazionale paritario (Stati), l’assurda sostituzione parziale o totale di questo ordinamento paritario con un ordinamento organizzato di Stati concepiti come enti chiusi il monista vede una mera evoluzione dell’ordinamento unico verso forme più perfette di comunità giuridica entro sfere oggettive o soggettive più o meno ampie. Per il monista, insomma, si trova realizzato già l’organismo giuridico unico (universale) entro il quale collocare tutti i fenomeni giuridici ai quali una unione può dar luogo[140].

Caratteristica della dottrina monista dell’unione di Stati, infatti, è di ritenere che nell’ambito segnato dall’atto costitutivo l’unione impera… – come lo Stato – in una sfera oggettiva, spaziale, temporale e personale»[141]. In una unione come quella postale, per esempio, sarebbe senz’altro realizzato giuridicamente quanto è detto all’art. 1 dello Statuto: «les pays entre lesquels est conclue la présente convention forment, sous la dénomination de l’Union postale universelle, un seul territoire postal»[142]. E questo sarebbe vero non solo per il territorio, ma per l’amministrazione postale stessa di tutti gli Stati membri. Almeno in teoria, vi sarebbe per effetto dell’unione un territorio postale unico, e la corrispondenza mondiale sarebbe amministrata da un’organizzazione unitaria. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra unione come le Nazioni Unite, gl’istituti specializzati, o una confederazione di Stati. Vi è chi accenna, per esempio, ai popoli degli Stati membri delle Nazioni Unite, come al popolo di questa organizzazione[143]. Per i monisti, la differenza fra Stato e unione internazionale «ist kein grundsätzlicher, sondern nur ein gradueller. Der Grad der Zentralisation der Rechtserzeugung und Rechtsvollziehung ist ein verschiedener, weniger intensiver»[144]. L’alleanza, la confederazione di Stati, lo Stato federale e lo stesso Stato unitario sarebbero «prodotti» diversi dell’ordinamento internazionale, in quanto tale ordinamento legittimerebbe gli uni come gli altri, sia in base al principio generale dell’effettività sia mediante norme ad hoc poste per mezzo d’un trattato. Da un trattato può nascere secondo il Kelsen tanto uno stato unitario o uno Stato federale quanto una semplice alleanza o una confederazione di Stati[145]. E dall’alleanza alla confederazione, dalle Nazioni Unite alle unioni regionali, dalle unioni amministrative alla Corte internazionale di giustizia o ad un arbitro, i monisti vedono sempre fenomeni di ordine pubblicistico interistituzionale[146]. Il che è conforme, del resto, alla nozione pubblicistica di qualunque accordo, sia dal punto di vista degli «organi» o dell’organo totale internazionale che lo pone in essere, sia dal punto di vista della sua efficacia per gl’individui membriagenti degli Stati[147] ed alla nozione pubblicistica dell’intero ordinamento internazionale.

È perfettamente naturale, nell’ambito d’una simile concezione, che i monisti. non trovino alcuna difficoltà a spiegare in termini giuridici internazionali – quale che sia la rispondenza di questi termini alla realtà – la posizione degl’individui che compongono gli «organi» delle unioni internazionali. L’organizzazione delle persone giuridiche – di tutte le vere persone giuridiche – è costituita di enti soggetti elementari dell’ordinamento in funzione di agenti, ed è solo per una finzione che le dottrine organicistiche sostengono il contrario. Ma per i monisti ciò non dà luogo ad alcuna difficoltà posto che gl’individui sono appunto i soli veri soggetti elementari dell’ordinamento internazionale[148]. Per loro le organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite e la Società delle Nazioni funzionano attraverso organi che sono sempre individuisoggetti. Vero è che anche per loro vi sono formalmente cariche e posti ricoperti da Stati (i seggi nell’Assemblea, nei tre Consigli e nel Comitato degli Stati Maggiori delle Nazioni Unite) e organi individuali (Segretario generale, personale del Segretariato, Cancelliere della Corte internazionale di giustizia) o composti di individui in quanto tali (Corte internazionale di giustizia). Come avverte il. Kelsen, però, che un organo sia «composto di Stati» è pei monisti solo un modo di dire. La verità è che si tratta d’individui che in certi casi sarebbero designati dall’ordinamento internazionale direttamente – e sarebbero i casi più rari -, mentre in altri (organi «composti di Stati» ) sarebbero designati dallo stesso ordinamento indirettamente – ma sempre giuridicamente – attraverso gli ordinamenti interni degli Stati «componenti» l’organo[149].

25. – Per i dualisti, invece – e per quanti sforzi abbiamo fatto per diventare monisti, noi siamo restati tali -, è tutt’altra cosa. Per il dualista conseguente, l’ordinamento internazionale e ordinamento paritario di comunità chiuse, di collettività nelle quali il diritto internazionale o il diritto da esso derivato non «circola», e che non sono legittimate, neppure a posteriori, dall’ordinamento internazionale stesso. Gli Stati, che sono istituzioni dal punto di vista dei rispettivi ordinamenti, sono soltanto entisoggetti rispetto all’ordinamento internazionale. Agli effetti giuridici internazionali, essi sono assimilabili agl’individui piuttosto che alle persone artificiali[150]. I loro membri non sono soggetti di diritto internazionale se non nel senso che essi subiscono in fatto le conseguenze materiali delle situazioni giuridiche facenti capo ai gruppi come tali. E ciò importa che essi non appaiano come organi della comunità internazionale più di quanto gl’individui sudditi appaiono come organi della comunità giuridica interna. E tanto meno appaiono come organi della comunità internazionale gl’individui che stipulano un trattato. Conseguentemente, si parla dai dualisti di paritarietà, di uguaglianza, di «anarchia» fra i soggetti: e non si dovrebbe parlare, a rigore, di «decentramento», che è un’idea legata alla concezione monista dell’ordinamento «imperfetto» e degli Stati-«organi», e che mal si concilia con la concezione dualista dell’ordinamento privatistico e degli Statisoggetti elementari[151].

Nell’ambito di una concezione siffatta, l’organizzazione della comunità paritaria in comunità parziali o in una comunità totale «a vincolo associativo più stretto»[152], ma sempre interstatuale (intendendosi per Stati dei gruppi chiusi all’azione del diritto internazionale), a parte il suo carattere estremamente problematico dal punto di vista della fonte delle norme necessarie in sé e per sé, si presenta come un fenomeno o una possibilità totalmente diversa da quel graduale processo di costituzione d’un governo interindividuale internazionale che i monisti ravvisano nei processi unionistici, e sopratutto come una possibilità tenuissima di «organizzazione» fra comunità politiche in posizione tendenzialmente paritaria, e che non potrà presentare mai, in quanto fenomeno giuridico internazionale, gli estremi della persona giuridica e dell’ordinamento organizzato nel senso del diritto interno. È soprattutto da escludere, in particolare – come ora vedremo, nell’ambito della concezione dualista, che si possano considerare come fenomeni di organizzazione internazionale la costituzione ed il funzionamento di organismi interindividuali del tipo di quelli che rappresenterebbero, nella maggior parte delle unioni, l’elemento organicoistituzionale[153].

Il solo vero fenomeno di organizzazione internazionale nel senso dualista sarebbe l’egemonia o il direttorio d’una o più potenze intese come gruppi chiusi nei confronti di un numero più o meno grande di altre potenze intese anch’esse come gruppi chiusi. Un fenomeno di gerarchia intergruppi, cioè – sul. piano regionale o universale -, che determini un’attenuazione più o meno sensibile della paritarietà del sistema e che si traduca in termini giuridicoistituzionali, con o senza il concorso della volontà delle potenze interessate. E non si tratterebbe certo d’un fenomeno – dato e non concesso che sia giuridico – realizzabile mediante un accordo con il quale uno o più Stati si «sottomettessero» individualmente ad un altro o costituissero insieme con altri una unione ineguale[154]. Poiché d’altra parte i processi egemonici, posto che raggiungano in qualche fase gli estremi del fenomeno giuridicoistituzionale, tendono a risolversi prima o poi o nel ristabilimento del sistema paritario ed eventualmente in processi egemonici nuovi e diversi, oppure in processi di unificazione per assorbimento di comunità minori da parte dello Stato «guida» (sia sul piano regionale che su quello universale), è non dico difficile, ma addirittura impossibile rappresentarsi, sia pure come una eventualità teoretica, il costituirsi della persona giuridica interstatuale parziale o totale corrispondente. Il momento stesso del costituirsi della persona giuridica internazionale in questo senso puramente internazionalistico, verrebbe a coincidere inevitabilmente con l’assorbimento dello Stato o degli Stati «sudditi» nello Stato o negli Stati «guida» e con la conseguente eliminazione dai loro rapporti di qualunque traccia del fenomeno giuridico internazionale quale è inteso dai dualisti, vuoi sul piano regionale vuoi su quello universale[155].

Quanto agli enti istituzionali costituiti nell’ambito delle unioni – siano queste a carattere autoritario o, com’è più frequente, a carattere ugualitario -, è solo una serie di equivoci che induce la maggior parte della dottrina dualista a concordare con i monisti nel ravvisarvi dei fenomeni di organizzazione internazionale.

In primo luogo ciò sarebbe comunque escluso – per le ragioni già svolte – dal fatto che, nella maggior parte dei casi, esula completamente da questi fenomeni l’aspetto istituzionale, perché si tratta di meccanismi istituiti mediante quegli accordi che non solo il più delle volte non creano alcun rapporto di carattere sia pure apparentemente gerarchico fra gli Stati in «unione», bensì soltanto dei rapporti contrattualiobbligatori, ma non sono neppure idonei, per le ragioni già esposte, a costituire rapporti d’ordine diverso. Una soluzione positiva sarebbe possibile, da questo punto di vista – dato e non concesso che in seno a quei meccanismi si trovassero organizzati gerarchicamente, nell’assurda istituzione fra gruppi che s’è vista, gli stessi Stati in veste di soggetti elementari dell’ordinamento internazionale -, quando entrasse in funzione una norma o una serie di norme spontanee del tipo di quella ipotizzata dal Balladore Pallieri e analoghe a quelle che eventualmente legittimano i fenomeni egemonici di cui si è detto. Ma questa è solo una difficoltà di ordine secondario al confronto con la difficoltà maggiore.

In secondo luogo – e qui sta il punto essenziale le c. d. istituzioni internazionali corrispondenti ai consigli, alle assemblee ed ai segretariati delle unioni in questione, sono organismi costituiti d’individui e non di Stati, ossia di enti che per noi dualisti non sono i soggetti elementari dell’ordinamento. E sono organismi caratterizzati da ordinamenti che non fanno parte, come quelli delle società e associazioni interne, dell’ordinamento nell’ambito del quale dovrebbero porsi come «organizzazioni» o «persone giuridiche». Sarebbe inutile osservare, da parte di chi accetti il più realistico punto di vista della. dottrina dualista, che il fatto stesso che due o più Stati sian d’accordo per costituire un meccanismo azionato da individui, fosse pure per governare in tutto e per tutto i loro rapporti, conferisca la soggettività necessaria agl’individui stessi e la giuridicità internazionale agli ordinamenti interni dei meccanismi. A parte il rilievo che, se due o più Stati non possono conferire ad altri, mediante accordo, dei «poteri» internazionali di supremazia nei propri confronti (poteri di supremazia che sussisterebbero, eventualmente, solo in quanto fenomeno egemonico-istituzionale), è assurdo pensare che possano farlo con enti che non sono nemmeno soggetti di diritto internazionale ad altri effetti, l’accordo è inidoneo, come s’è visto, a creare effetti giuridici assoluti. Esso è quindi inidoneo a creare soggettività d’individui ed ordinamenti parziali. Né sarebbe il caso di pensare ad una norma consuetudinaria che realizzasse questi due effetti, a meno di non ammettere, insieme con l’esistenza di una simile norma, quello che la sua presenza implicherebbe dal punto di vista del modo di essere dell’intero ordinamento internazionale. La norma consuetudinaria o comunque «spontanea» che ponesse uno Stato in una situazione giuridica di supremazia nei confronti degli altri sarebbe una norma in un certo senso rivoluzionaria, perché non conforme alla c. d. struttura «paritaria» dell’ordinamento internazionale quale siamo abituati a considerarlo noi dualisti, ma lascerebbero almeno ancora fermo, fino a quando non si verificasse un fenomeno di consolidamento degli Stati in unione in una comunità statuale più ampia (regionale o universale), l’ordinamento fra gruppi chiusi all’azione del diritto che ne regola i rapporti. Ma una norma consuetudinaria che legittimasse uno o più individui nella posizione di «governanti» al di sopra d’una comunità regionale o della comunità universale degli Stati sarebbe un segno indubbio che la comunità dei gruppi chiusi all’azione del diritto è venuta meno nel settore regionale o sul piano universale e che siamo già nella fase del superStato interindividuale. E questo – a parte l’evidente inverosimiglianza dell’idea – nessuno scrittore dualista sembra disposto ad ammetterlo Coloro che parlano d’una norma consuetudinaria che legittima le unioni o determinate unioni, si riferiscono non agli individui che ne compongono gli «organi» uti singuli, ma al meccanismo tutto intero inteso organicisticamente.

Se, d’altra parte, non esiste soggettività internazionale degli individui che compongono i meccanismi d’unione e non c’è giuridicità internazionale degli ordinamenti che operano entro questi meccanismi, la sola possibilità che resti ai dualisti è di configurare i meccanismi stessi come degli enti materialmente composti d’individui al pari dei gruppi soggetti elementari dell’ordinamento internazionale. Si tratterebbe cioè di enti elementari non diversi da uno staterello o una città libera costituita in adempimento d’un trattato.

È bene notare che l’interindividualità del fenomeno non si verificherebbe soltanto nei regolamenti delle assemblee e dei consigli, ma nell’ambito dello statuto stesso dell’unione. A parte il fatto, quindi, che gli stessi regolamenti interni dei c. d. «organi collegiali» delle persone giuridiche interne non costituiscono, a nostro avviso, come molti autori ritengono, degli ordinamenti staccati e distinti dallo statuto e dall’ordinamento dello Stato da cui lo statuto deriva, non si sfugge al rilievo di questo ibrido osservando che l’interindividualità resterebbe un fenomeno meramente interno agli organi collegiali d’unione. Un fenomeno giuridico si dovrebbe manifestare inevitabilmente – perché si possa parlare d’istituzione internazionale -, nella stessa formazione dei consigli e delle assemblee.

Nelle persone giuridiche e nelle stesse organizzazioni interistituzionali interne, la formazione degli «organi» collegiali consiste nell’investitura di determinati individui a membri del collegio o dell’assemblea, investitura che viene effettuata in base a disposizioni statutarie o legislative e riveste quindi carattere giuridico interindividuale anche se poi le attività dei singoli individuimembri entro il collegio si dovessero veramente svolgere – secondo la teoria organicistica che non condividiamo – come attività di fatto intese a comporre materialmente l’attività del collegio. In tanto si potrebbe parlare, quindi, del meccanismo corrispondente alle Nazioni Unite come di un ente giuridico o un’istituzione internazionale anziché di un ente soggetto elementare dell’ordinamento, in quanto le norme regolatrici delle nomine fossero delle norme internazionali-interindividuali: in quanto il signor Trygve Lie, tanto per intenderci, fosse investito di funzioni o poteri amministrativi internazionali ed i delegati al Consiglio o all’Assemblea fossero investiti internazionalmente della qualità di membri di questi collegi. Ma ciò in realtà non avviene. I soli poteri e le sole funzioni o cariche che ai funzionari internazionali ed ai delegati risultino conferiti rivestono carattere giuridico soltanto dal punto di vista dell’ordinamento interno del meccanismo interindividuale. Dal punto di vista del diritto internazionale – il patto interstatuale – esistono solo diritti e doveri degli Stati considerati nella loro unità storica. E una volta ammesso questo, è chiaro che non ci si potrà riferire al meccanismo in questione come ad un’«organizzazione internazionale», nel senso in cui si parla di «organizzazioni» interindividuali a proposito delle associazioni, delle società e delle organizzazioni pubbliche di diritto interno[156].

Anche quando si riconoscessero nei meccanismi in questione gli estremi della soggettività giuridica internazionale[157], si tratterebbe di enti soggetti elementari a carattere non statuale o prestatuale e che non sarebbero sovraordinati agli altri né in base all’accordo, inidoneo a creare supremazia, né in base al fenomeno istituzionale di cui ciascuno di essi è la risultante storica, in quanto tale fenomeno costituisce rapporti di supremazia all’interno dell’organismo interindividuale stesso e non all’esterno, nei confronti dei gruppi soggetti «associati». A parte, quindi, il fenomeno istituzionaleinterindividuale interno all’organismo stesso, eventualmente estensibile agl’individui componenti i gruppi associati come fenomeno costituzionalefederale, il solo vero processo di organizzazione potrebbe essere costituito dall’eventuale sviluppo dell’organismo in questione in uno Stato in proposizione di supremazia sugli altri «associati». Ed anche questo a condizione che ciò sia possibile ferma restando la soggettività internazionale di questi ultimi[158], e sempre con le riserve che si son fatte circa la presenza, in un fenomeno del genere, degli estremi dell’«organizzazione giuridica». Ma tutto questo risulterà più chiaramente, speriamo, da quel che segue immediatamente e nelle pagine successive.

La ragione fondamentale di tutte queste difficoltà è costituita dal fatto che la separazione fra diritto internazionale e diritto interno[159] esclude l’esistenza di quell’organismo giuridico almeno formalmente unitario, entro il quale i monisti possono agevolmente inquadrare – sempre formalmente – sia quella parte del fenomeno che rileva dal c. d. diritto internazionale stricto sensu, sia quell’altra parte del fenomeno che si risolve nell’ambito degli ordinamenti interindividuali «derivati» dei singoli Stati membri e della stessa unione: e dal fatto che manca, per la stessa ragione, la possibilità di concepire gli individui operanti in seno ai meccanismi d’unione come «agenti» della comunità internazionale, qualificati dall’ordinamento internazionale stesso, direttamente o indirettamente, a svolgere «funzioni» internazionali. In altri termini, là dove il monista non trova difficoltà – almeno in teoria – a parlare di «agenti» od «organi», di un «ordinamento parziale», di un «territorio» e di un «popolo» dell’unione, il dualista non può affermare l’esistenza di questi fenomeni sic et simpliciter, ma deve distinguere il fenomeno giuridico internazionale da quello extrainternazionalistico. Con la conseguenza che quella parte del fenomeno che si svolge nell’ambito degli ordinamenti interni delle «unioni» o dei singoli Stati «membri», e che per il monista resta, sia pure indirettamente, un fenomeno giuridico internazionale, per il dualista non esiste neppure come fenomeno giuridico, e costituisce anzi la negazione dell’esistenza del fenomeno giuridico internazionalistico. L’inidoneità dell’accordo a determinare effetti assoluti, d’altra parte – e in particolare l’inidoneità di questo atto ad elevare a soggetti gl’individui, implicita, come s’è visto, nella stessa concezione dualista -, rende impossibile il superamento di queste difficoltà entro ed in costanza del sistema attuale[160].

Se di tutto questo la dottrina dualista stenta molto a rendersi conto, è perché da un lato essa non sa distinguere, a causa del presupposto organicistico da cui muove, un’«organizzazione giuridica» da un ente soggetto composto ma giuridicamente elementare: il che la porta a qualificare gli organismi d’unione come «persone giuridiche internazionali», nonostante che essa eventualmente neghi tanto la giuridicità dei relativi ordinamenti interni quanto la soggettività internazionale degl’individui che in essi operano. Dall’altro lato, perché la sopravvalutazione rilevata dell’efficacia dell’accordo internazionale, unita eventualmente alla mancata percezione delle conseguenze radicalmente rivoluzionarie che avrebbe l’ipotetica norma consuetudinaria costitutiva di unioni dal punto di vista della stessa composizione della comunità giuridica internazionale e dell’esistenza dello stesso ordinamento internazionale nell’ambito del quale la norma in parola dovrebbe operare, la inducono a ritenere che questi due dati negativi siano superati o superabili proprio attraverso la costituzione di unioni. Essa non s’avvede di negare così, implicitamente, tutte le premesse dualiste dalle quali muove o crede di muovere, ponendosi senz’altro sul piano monista sia dal punto di vista della composizione dell’istituzione internazionale, sia dal punto di vista dei mezzi idonei a costituirla.

Ma è bene esaminare più da vicino gli enti istituzionali interindividuali in questione, perché i fattori che oscurano il problema son così numerosi e intricati che non è facile rendersi pienamente conto dell’esattezza dei rilievi svolti. Ad una definizione più soddisfacente del fenomeno dal punto di vista dualista procederemo più avanti.

§ II. – L’elemento istituzionale dell’unione

nello sviluppo allenza-confederazione-stato federale.

Contratto internazionalistico «obbligatorio»

e istituzione interindividuale

Sommario: 26. Riprova dell’estraneità del fenomeno istituzionale interindividuale al diritto internazionale tratta dal riesame delle costruzioni monista e dualista dello sviluppo alleanzaconfederazioneStato federale. – 27. Incongruenze ed assurdità della costruzione dualista dominante e loro causa. Necessità di tener distinto il fenomeno contrattuale-obbligatorio d’ordine internazionalistico dagli elementi embrionali e dallo sviluppo dell’istituzione interindividuale grosso modo corrispondente. – 28. Riprova ulteriore della distinzione nelle «unioni» di protettorato e nell’incorporazione consensuale. – 29. Rapporto contrattuale-obbligatorio di diritto internazionale e istituzione interindividuale nell’evoluzione dell’unione confederale nord-americana in Stato federale. Il 1o Congresso continentale come embrione dell’ordinamento interindividuale corrispondente alla «più perfetta unione». Critica dell’interpretazione monistica del fenomeno.

26. – La riprova migliore dell’assurdità in cui i dualisti cadono quando fanno la teoria dell’organizzazione internazionale assumendo ad elemento di questo fenomeno l’organismo interindividuale costituito dalla dieta, dal consiglio e dall’assemblea dell’«unione» pattizia, s’induce dal confronto fra le posizioni moniste e quelle dualiste riguardo ai fenomeni giuridici che si verificano quando da un’alleanza si passa ad una confederazione di Stati e poi allo Stato federale.

Quel fenomeno di unione sempre «più perfetta» che va dalla fase dell’alleanza alla confederazione e poi allo Stato federale, è qualificato, dai dualisti e dai monisti, come il passaggio dal contratto all’unione internazionale e poi all’unione costituzionale. A nessuno dovrebbe sfuggire, d’altra parte, che, mentre per i monisti si tratta d’uno sviluppo giuridicamente uniforme e continuo, per i dualisti si tratta di fenomeni discontinui, sia dal punto di vista della natura di ciascuno, sia dal punto di vista degli ordinamenti che entrano o si fanno entrare in gioco.

Pei monisti qualunque trattato internazionale costituisce, per le ragioni spiegate, un fenomeno d’ordine pubblicistico[161], svolgentesi nell’ambito del diritto pubblico della comunità universale interindividuale. Il trattato di alleanza, quindi, è un fenomeno d’ordine pubblicistico internazionale per la natura degli enti dai quali è posto in essere, ed ai quali fanno capo i suoi effetti[162]. Il più autorevole dei monisti lo riconosce incidentalmente in uno scritto recente[163]. Evidente è poi la natura pubblicistica internazionalistica del fenomeno della confederazione, dato che al trattato pubblicistico si aggiunge l’organizzazione interindividuale derivata costituita dalla dieta o dall’assemblea confederale. Non meno chiara, infine, è la natura pubblicistica internazionale dell’ordinamento federale, nel quale lo sviluppo in esame trova il suo compimento[164]. Come è noto, infatti, tanto lo Stato unitario che lo Stato federale trova la sua legittimazione – la sua «normabase» -nell’ordinamento internazionale, inteso come diritto costituzionale decentratissimo in. funzione di delimitazione dell’ambito temporalespazialepersonale di ciascun ordinamento statuale rispetto agli altri. Restiamo dunque sempre in uno stesso ordine di fenomeni e sempre nell’ambito dell’unico ordinamento totale di cui il diritto internazionale costituisce pei monisti il vertice[165]. Quanto ai dualisti, è evidente – anche se la dottrina dualista non sembra rendersene conto – che fra i tre fenomeni non sussiste né uniformità né continuità giuridica e che nessun dualista potrebbe sostenere il contrario senza abbandonare le premesse da cui muove.

Il rapporto d’alleanza, per unanime ammissione della dottrina dualista vecchia e nuova, ha .natura strettamente contrattuale-obbligatoria. Un tempo, quando si distingueva fra trattatilegge e trattaticontratto, si diceva che l’alleanza è un trattatocontratto. Oggi che quella distinzione è abbandonata, si dice che si tratta d’un mero contratto obbligatorio perché manca il fenomeno «istituzionale» (con la conseguenza che ci si comincia a trovare imbarazzati di fronte alle alleanze «organiche»). Noi diremmo che si tratta comunque d’un mero contratto obbligatorio perché tutti i trattati son contratti obbligatori ed anche se ci fosse un elemento istituzionaleinterindividuale, rappresentato da comandi unificati e armate integrate, non si avrebbe un fenomeno internazionalistico diverso. L’eventuale comando unificato non verrebbe ad esser posto al di sopra degli Stati alleati per effetto dell’accordo, bensì al di sopra delle forze armate poste a sua disposizione nell’ambito dell’ordinamento interindividuale corrispondente al meccanismo unionistico o nell’ambito dei vari ordinamenti degli Stati: e questo in base ad un titolo diverso dall’accordo fra gli Stati. Comunque sia, ci basta sapere per ora che per i dualisti l’alleanza costituisce, almeno in certi .casi, un fenomeno d’ordine privatistico nell’ambito dell’ordinamento internazionale.

Nella fase confederale, poi, secondo la dottrina dualista che critichiamo, si avrebbe sempre un fenomeno internazionalistico, che assumerebbe però un carattere pubblicistico a causa dell’esistenza di «organi», di una attività unitaria dell’unione e dell’ordinamento internazionale parziale corrispondente.

Nella fase federale, invece, almeno a partire da un certo momento, avremmo un fenomeno pubblicistico svolgentesi esclusivamente nell’ambito del diritto interno. L’integrazione, infatti, rafforzando l’elemento pubblicisticoistituzionale, determina il superamento totale della fase contrattualesemplice. Ed il costituirsi dell’unione costituzionale, ossia d’uno Stato, da un lato viene ad escludere l’efficacia del diritto internazionale – sia il diritto generale, sia le norme pattizie confederali – entro la cerchia degli Stati federati (i rapporti fra i quali si risolvono in rapporti costituzionali), e dall’altro lato esclude ogni derivazione dell’istituzione interna dall’ordinamento internazionale, perché lo Stato federale, al pari dello Stato unitario, non è legittimato in nessun caso dall’ordinamento internazionale rispetto al quale costituisce una formazione storica, ossia un fatto.

Nello sviluppo alleanzaconfederazioneStato federale avremmo insomma una fase contrattualeprivatistica e due fasi pubblicistiche: una fase contrattualeprivatistica internazionale una fase pubblicistica internazionale-interindividuale ed una fase pubblicistica di diritto interno. Il duplice ibrido privatisticopubblicistico ed interstatualeinterindividuale della seconda fase e del passaggio dalla prima fase alla seconda non potrebb’essere più evidente. E non potrebb’essere più assurda la brusca interruzione della continuità giuridica del fenomeno internazionalistico nel passaggio dalla seconda fase alla terza. Esatti sono il punto di partenza e il punto d’arrivo, entrambi perfettamente conformi all’idea d’una comunità giuridica di gruppi chiusi al diritto nella loro composizione e struttura interna e quindi in veste di «privati» rispetto all’ordinamento internazionale. Ma nel tratto che divide queste due fasi – proprio nel tratto dell’evoluzione che assume maggiore rilevanza agli effetti della teoria dell’organizzazione internazionale -, al logico, coerente sviluppo monista, basato da cima a fondo sulla nozione interindividualistica dell’ordinamento totale e sul carattere pubblicistico degli enti contraenti e dei loro atti, i dualisti oppongono una costruzione incoerente ed artificiosa, in cui dalla nozione implicita d’un ordinamento privatistico della società di gruppi si passa inesplicabilmente a quella di un diritto pubblico confederale non si sa bene se interindividuale o intergruppi (gruppi «chiusi» nel senso che s’è visto), e dalla concezione privatistica dell’accordo si scivola con altrettanta disinvoltura nella concezione pubblicistica. E un fenomeno istituzionaleinterindividuale (o interstatuale) regolato dall’ordinamento internazionale si tramuta di colpo in un fenomeno istituzionale di diritto interno, separato da una netta soluzione di continuità da quello immediatamente precedente. Se l’esatta valutazione di queste incoerenze non fosse un vero rompicapo, nessun aspetto della teoria dualista sarebbe altrettanto favorevole alla concezione monistica del diritto.

27. – Il punto d’arrivo e quello di partenza sono entrambi conformi alla concezione dualista, perché tanto l’idea del contratto obbligatorio di alleanza che il carattere originario dell’ordinamentoStato federale costituiscono l’applicazione coerente della idea che l’ordinamento internazionale regola rapporti fra gruppi intesi come enti collettivi ma non come istituzioni giuridiche. Poiché gli Stati figurano qui come soggetti elementari, essi non si differenziano dai «privati» del diritto interno dal punto di vista della posizione che occupano nell’ambito del sistema e della «funzione» dei loro atti contrattuali. Conseguentemente, il trattato d’alleanza non costituisce, come per i monisti, una fonte di normerapporti d’ordine pubblicistico che penetrino entro le sfere sociali degli Stati contraenti investendo di funzioni o poteri gli agentimembri degli Stati stessi, ma solo rapporti obbligatori fra questi ultimi intesi come soggetti in senso «finale». Per lo stesso motivo – l’originarietà dell’ordinamento statuale dal punto di vista del diritto internazionale – la formazione d’una comunità statuale più grande al posto dello Stato stesso come organizzazione o comunità giuridica segna l’inserimento di un gruppo organizzato più ampio entro la cerchia dei soggetti elementari dell’ordinamento, al posto dei due o più soggetti elementari preesistenti e come ente di fatto, la cui organizzazione e legittimazione non deriva dall’ordinamento internazionale. La stessa ragione che esclude che gli Stati originari siano delle persone giuridiche (pubbliche) agli effetti del «valore» del trattato di alleanza, esclude che lo Stato federale risultante sia nulla più che un soggetto semplice o elementare ed in questo senso un «privato» dell’ordinamento internazionale. Ma è proprio al confronto con la perfetta coerenza di queste due fasi terminali che i conti non tornano affatto nell’evoluzione intermedia. E purtroppo son conti estremamente difficili.

Il primo passaggio inesplicabile è la strana metamorfosi che porta l’accordo – previsto da quella stessa norma strumentale che legittimava il contratto privatistico di alleanza (pacta sunt servanda), e concluso dagli stessi Stati«privati» – a costituire l’«organizzazione» giuridica o l’ordinamento parziale corrispondente alla confederazione intesa come persona internazionale giuridicamente composta. Da un atto di portata privatisticaobbligatoria si passa, senza che mutino il titolo dell’atto e la posizione dei contraenti in seno all’ordinamento, ad un atto di portata tipicamente pubblicisticoistituzionale. A questa metamorfosi della portata dell’atto si aggiunge poi una metamorfosi ancora più rilevante nella composizione della società nell’ambito della quale l’accordo verrebbe ad operare. Il patto di alleanza trovava i punti terminali delle normerapporti da esso create negli Stati-privati. Il patto di confederazione, invece, a meno di non pensare a mostruosi consigli ed a mostruose assemblee di Stati antropomorfi – fra i quali e sui quali resta comunque inconcepibile che l’accordo crei un’organizzazione istituzionale a causa della sua natura privatistica -, dovrebbe costituire un ordinamento speciale internazionale avente per soggetti degl’individui ed azionato da individui. Avremmo insomma un contratto che non solo determina improvvisamente effetti pubblicistici fra gli Stati intesi come soggetti elementari, ma si rivolge magari nello stesso tempo a degl’individui: e questo senza contare l’eventuale soggettività che esso determinerebbe di per sé nell’ente. Non a tutti gli autori si può muovere lo stesso duplice rilievo, a dire il vero, – giacché vi sono scrittori dualisti che, pur ammettendo l’idea dell’ordinamento parziale da accordo, fanno sussistere quest’ordinamento soltanto fra gli Stati. È evidente, d’altra parte, che difficilmente si può pensare che agli effetti pubblicistici interstatuali non si accompagnino dei fenomeni di soggettivazione di individui, a meno di non configurare il fenomeno dell’organizzazione giuridica da accordo come un sistema di norme attributive di funzioni e di poteri ai singoli Stati stessi, intesi come enti collettivi di fatto, ed all’ente istituzionale inteso anch’esso come ente collettivo di fatto. Idea che importerebbe l’esclusione di ogni elemento giuridicoistituzionale entro il meccanismo stesso della unione (diete, consigli e assemblee) e la concezione dell’organismo stesso come un ente collettivosoggetto elementare. Il che significherebbe che gli Stati contraenti non avrebbero creato un ente composto di Stati o un ente composto giuridicamente d’individui, ma uno Stato: – e uno Stato, dualisticamente inteso, non costituisce una persona giuridica internazionale in senso tecnico, ossia un ordinamento parziale derivato da quello internazionale. Per questa stessa ragione, anzi, l’innesto d’un’organizzazione giuridica interindividuale nel sistema giuridico della comunità di enti collettivi organizzati in linea di fatto è, a ben guardare, inevitabile anche nella teoria delle unioni da norme consuetudinarie, che evita soltanto l’ibrido del contratto privato ad effetti pubblicistico-istituzionali[166].

Il secondo punto inesplicabile – e questo nella teoria della unione da norma consuetudinaria non meno che nella teoria dell’unione da accordo – è il passaggio della fase pubblicistica-istituzionale internazionalistica della confederazione, alla fase pubblicistico-istituzionale interna della costituzione federale. Posto che nella fase confederale esisteva un’organizzazione interindividuale innestata nell’ordinamento internazionale, infatti, non si riesce a comprendere attraverso quale processo questo preteso fenomeno internazionalistico venga ad un certo momento ad esaurirsi per far posto ad un fenomeno costituzionale interno, che per il carattere originario della formazione federale non sarebbe in alcun rapporto di continuità giuridica con lo stadio precedente. Che il fenomeno internazionalistico si esaurisca per il venir meno degli enti soggetti fra i quali il patto confederale operava è perfettamente comprensibile e non presenta evidentemente nessuna incongruenza, perché si tratta d’un processo riscontrabile in altre figure, come l’annessione e la fusione: Resta da spiegare, però – e gli scrittori dualisti che seguono la teoria in esame non accennano minimamente a farlo -, come mai il fenomeno istituzionaleinternazionale in corso venga a scomparire nientemeno che nello stesso momento in cui l’istituzione raggiunge uno stadio più avanzato di accentramento. Lungi da noi la pretesa di trovare un’armonia assoluta nei fenomeni giuridici. Ma che un’organizzazione istituzionale in corso di sviluppo – come quella che avrebbe inizio nell’alleanza organica e verrebbe consolidandosi nella fase confederale – venga meno come fenomeno giuridico; dal punto di vista dell’ordinamento in cui prosperava, proprio nel momento in cui il processo organizzativoistituzionale raggiunge un maggior grado d’intensità, è semplicemente assurdo. Tanto più assurdo quando si consideri che la logica e l’osservazione storica – e vedremo presto un caso storico molto significativo a questo riguardo – fanno invece pensare allo Stato federale od unitario come allo sbocco finale dello sviluppo progressivo e continuo d’una istituzione interindividuale, il nucleo della quale si trova proprio nel meccanismo confederale o addirittura in fenomeni di organizzazione interindividuale anteriori alla conclusione del patto stesso. Ciò è riconosciuto, sì, dagli stessi dualisti, quando osservano (concordando con i monisti), che lo Stato federale e quello unitario non sono che due fasi ulteriori della unione confederale[167]. Ma è smentito, evidentemente, dall’asserzione degli stessi dualisti che l’ordinamento confederale sia un «ordinamento parziale» o un’«organizzazione» internazionale, mentre l’istituzione federale e quella unitaria non hanno la veste di organizzazioni o istituzioni internazionali, bensì quella di meri soggetti elementari dati.

La sola maniera di eliminare queste gravi incongruenze senza cadere nella facile costruzione pubblicisticointerindividualeunitaria dei monisti, è di rispettare in maniera assoluta quei dati dualistici fondamentali che sono il carattere privatistico dell’accordo fra Stati e il carattere paritario interstatuale dell’ordinamento internazionale, e di tenere sul terreno del diritto pubblico interno l’intero processo istituzionale interindividuale e sul piano del diritto internazionale il fenomeno contrattuale fra i gruppi «sovrani»: e questo facendo risalire senz’altro l’inizio del primo fenomeno al primo momento in cui si manifesta un processo istituzionaleinterindividuale, e riconoscendo la persistenza del rapporto contrattuale internazionale, in un ambito oggettivo man mano più ristretto, fino al momento in cui siano completamente dissolti, entro l’istituzione interindividuale totale, i gruppi già chiusi ch’erano parti nell’accordo. Soltanto una costruzione basata su questi criteri può rendere conto del fatto che, mentre per il monista il fenomeno istituzionale interindividuale non solo è determinato dallo stesso accordo, ma s’inquadra perfettamente – sia pure in linea meramente teorica – in un processo di accentramento dell’ordinamento internazionale (processo che è l’evoluzione dell’ordinamento internazionale in ordinamento costituzionale in senso stretto), per il dualista il fenomeno d’organizzazione interindividuale è più problematico per il carattere strettamente interstatuale dell’accordo, e costituisce per giunta un processo storicosociale negativo rispetto all’efficacia oggettiva e soggettiva ed eventualmente rispetto alla stessa esistenza dell’ordinamento fra gruppi sovrani.

Per ogni buon dualista, cioè – e fino a quando i monisti non dimostrino la legittimazione internazionale dello Stato non c’è nessuna ragione di pensarla diversamente – lo sviluppo alleanzaconfederazione-Stato federale costituisce un processo per effetto del quale l’ordinamento internazionale viene progressivamente soppiantato dal diritto costituzionale dell’unione sorgente, fino a trovarsi estromesso del tutto dai rapporti fra gli Stati federali, per essere ridotto alla mera funzione di regolare i rapporti paritari dell’ente più ampio con le collettività ad esso esterne e chiuse anch’esse alla sua azione. E questo stesso rilievo si potrebbe estendere con l’immaginazione al processo analogo che eventualmente investisse tutti gli Stati che compongono la comunità internazionale. Dopo essersi ritratto dai vari ambiti regionali per effetto del costituirsi di comunità statuali più ampie e comprensive delle collettività fra le quali operava, l’ordinamento internazionale continuerebbe a ritrarsi davanti a formazioni sempre più grandi fino a scomparire del tutto: subentrando man mano al suo posto un numero sempre minore di ordinamenti interindividuali più ampi, fino al costituirsi eventuale di un ordinamento interindividuale unico. Concezione ben diversa da quella dei monisti, evidentemente, pei quali si tratta sempre di uno sviluppo dell’ordinamento unico (internazionale), che da fasi di decentramento passa gradualmente all’accentramento in ambiti soggettivioggettivi più o meno, vasti.

Vero è – ci si potrebbe far notare – che lo Stato federale non è un’unione di diritto internazionale nemmeno per i monisti. Ma esso non è tale, a ben guardare, in un senso profondamente diverso che pei dualisti. Per il monista lo stesso Stato unitario è un ente composto, perché l’ordinamento dello Stato fa parte dell’ordinamento internazionale ed è da questo legittimato. A maggior ragione è giuridicamente composto lo Stato federale. La differenza fra lo Stato federale e la confederazione sta pei monisti soltanto nel fatto che lo Stato membro del primo è soggetto solo mediatamente al diritto internazionale «in senso stretto», mentre lo Stato membro della seconda vi è soggetto direttamente[168]. Ma ciò vuol dire che, sia pure mediatamente, il diritto (internazionale) «penetra» anche nell’ambito dello Stato federale come del resto «penetra» – secondo la nota teoria della soggettività internazionale giuridicamente mediata degl’individui (Kelsen, Verdross, Kunz, Guggenheim)[169] – entro lo stesso Stato unitario. E il fatto che circoli indirettamente non è per il monista un elemento negativo ma positivo. Negativo è, apparentemente, quando si consideri il mero fenomeno del ritrarsi delle norme di diritto internazionale «in senso stretto» dall’ambito degli Stati membri della federazione, entro il quale prima operava direttamente. Ma è in realtà un fenomeno positivo, perché l’accentramento che ne deriva resta sempre un fenomeno giuridico internazionale. Il diritto internazionale stesso – già diritto costituzionale imperfetto, e svolgente la funzione di legittimazione-delimitazione degli ordinamenti statuali in base al principio dell’effettività – diventa diritto costituzionale. Ed è in questo senso che per il monista l’ordinamento internazionale contiene virtualmente la costituzione mondiale, mentre per il dualista la costituzione mondiale segnerebbe la fine dell’ordinamento paritario e la fine degli Stati come enti di fatto (originari o sovrani).

Per il dualista, quindi, è assurdo pensare, come fa la dottrina dominante, che la confederazione sia un ente organizzato dal diritto internazionale. Le stesse ragioni per le quali si esclude che sia regolata dal diritto internazionale l’unione federale, escludono che sia regolata dal diritto internazionale l’organizzazione corrispondente agli uffici confederali. L’elemento reale dell’unione politica od amministrativa fra due Stati non è dunque il «sostrato» di una persona giuridica internazionale in senso proprio. La sola interpretazione logica è quella che riconosce eventualmente in questo elemento l’embrione di una istituzione o una istituzione solo dal punto di vista interno dell’unione stessa o dal punto di vista degli ordinamenti statuali (diritto interindividuale). Dal punto di vista internazionalistico c’è solo un eventuale ente soggetto elementare. Conseguentemente, non si può utilizzare l’elemento reale in questione come un elemento che qualifichi, per così dire, l’accordo costitutivo trasformandolo da contratto fra «pares» in costituzione. Il contratto opera sul piano internazionalistico e la costituzione opera sul piano distinto del diritto interno (interindividuale). Pei dualisti questi due piani non sono intercomunicanti: il contratto è un mero fatto per la costituzione, e la costituzione è un mero fatto per il contratto Il contratto, con la sua forza giuridica internazionale, sarà eventualmente uno dei fattori materiali che concorrono a determinare in fatto l’esistenza della costituzione, ponendo agli Stati che esso vincola certi obblighi, l’adempimento dei quali porta alla creazione di determinati meccanismi. Ma la costituzione si sviluppa come fenomeno interindividuale, e soltanto interindividuale, al di fuori del diritto internazionale. Man mano che l’istituzione si va formando e consolidando, svanisce l’elemento giuridico internazionale che pure serviva a facilitarne ed a proteggerne la formazione, e che sarà rimasto durante tutto il processo solo il patto obbligatorio fra uguali. E ciò, beninteso, non già perché la concezione dualista vieti la penetrazione dell’ordinamento internazionale nell’ambito dell’istituzione di diritto interno, ma perché il consolidarsi di questa chiude inevitabilmente la realtà sociale interna ai rapporti giuridici paritari che fossero rimasti ancora in vita fra gli Stati confederati e fra questi ed i terzi.

28. – La distinzione risulta forse ancora più evidente quando si considerino, dopo la confederazione, quelle unioni c. d. semplici delle quali la dottrina dualista non esita a riconoscere la natura strettamente contrattualeobbligatoria, nonostante che vi si trovi eventualmente realizzato o in via di realizzazione, al di là (o al di qua) del rapporto contrattuale di diritto internazionale, un fenomeno istituzionale in un certo senso più imponente di quello che si produce nelle confederazioni. Atteggiamento che si spiega con il rilievo che il fenomeno istituzionale interindividuale si colloca più evidentemente, in questi casi, al di fuori del diritto internazionale inteso dualisticamente. Tanto al di fuori, che le figure in questione vengono a porsi accanto a quel vertice del fenomeno unionistico che la dottrina esattamente rinviene nello Stato unitario[170]. Alludiamo alle unioni di protettorato e al caso limite dell’incorporazione consensuale di uno Stato da parte di un’altro.

Che queste «unioni» abbiano un carattere infinitamente più stretto delle unioni per le quali si pone il problema della soggettività e dell’organizzazione internazionale non si potrebbe invero dubitare, se le si considerano sotto lo stesso angolo visuale dal quale ci si pone quando si vede nella confederazione una unione organica. Eppure a nessun internazionalista (dualista) verrebbe mai fatto di qualificarle come unioni «organiche» di diritto internazionale. Perché? A nostro modesto avviso appunto perché l’elemento internazionalistico e quello istituzionale procedono su piani diversi.

Il protettorato internazionale è il contratto obbligatorio, che per unanime ammissione degli internazionalisti dualisti lega Stato protetto a Stato protettore fino al momento in cui il primo diventi indipendente o sia annesso[171]. L’istituzione è quella parte del fenomeno – negativa rispetto all’esistenza di rapporti internazionali fra protettore e protetto e quindi all’efficacia del diritto internazionale e dello stesso contratto di protettorato -, che realizza un’unità organica decrescente o crescente e che taceva o farà in futuro del protettore e del protetto un soggetto elementare unico o del protetto un soggetto a capacità ridotta.

Una visione ancora più netta della distinzione, e del contrasto tra il rapporto paritario internazionalistico e l’istituzione «interna» – perché paritario e contrattuale resta il primo fenomeno finché il soggetto passivo ha un filo di «vita» e di soggettività internazionale – si ha nel caso limite dell’«incorporazione» consensuale. Il contratto obbligatorio, che non assoggetta lo Stato incorporando all’altro, ma lo obbliga ad assoggettarsi, rimane in vigore sino a quando non sia consumata l’obbligazione dello Stato annettendo di «lasciarsi annettere». Durante il periodo del passaggio dei poteri, si ha intanto l’effettivo progressivo assoggettamento con il sorgere dell’istituzione. Ma il rapporto contrattuale resta nel frattempo strettamente obbligatorio, senza mai assumere una colorazione pubblicistica. Il fenomeno istituzionale si risolve sul piano interindividuale e quindi fuori dell’ambito del diritto internazionale.

La percezione di questa distinzione elimina sia la contraddizione criticata fra la portata privatistica dell’accordo in genere o dello stesso accordo d’alleanza e la pretesa portata pubblicistica del patto confederale, sia la contraddizione tra il carattere interStatisovrani del diritto internazionale e il carattere interindividuale del fenomeno istituzionale che porta alla costituzione federale. Risultano inoltre eliminati, sia i dubbi intorno alla natura degli ordinamenti degli enti internazionali – che si presentano come ordinamenti interindividuali originari[172] -, sia le evidenti difficoltà in cui la dottrina dualista si dibatte quando tenta la classificazione delle unioni[173]. E ne vedremo le varie conseguenze in sede costruttiva per la definizione dei meccanismi d’unione e del loro rapporto con il patto.

Resta dunque una sola possibilità di ammettere l’esistenza di un fenomeno di organizzazione giuridica internazionale in seno all’unione: che gli organi assumano nella loro totalità la veste d’un soggetto elementare in posizione egemonica rispetto agli Stati membri. E vedremo che si tratta d’una possibilità molto tenue.

29. – Un fenomeno storico che può chiarire le considerazioni svolte è l’intersecarsi di rapporti giuridici d’ordine internazionalistico ed interno in seno all’unione delle tredici excolonie dell’America del Nord nel periodo che va dal primo Congresso continentale del 1774 all’entrata in vigore della Costituzione federale: il periodo che i costituzionalisti. e gli storici degli Stati Uniti considerano come il ventennio «critico» dell’unione[174]. Un breve esame delle vicende storiche varrà a mettere in luce il duplice aspetto internazionalistico ed interno del fenomeno unionistico.

Per effetto dei noti avvenimenti, le tredici comunità che avevano costituito una pluralità di corporazioni pubbliche distinte nell’ambito dell’ordinamento britannico ed erano rimaste estranee, come tali, ai rapporti giuridici internazionali, si trovarono ad assumere una posizione che non sembra azzardato definire come soggettività giuridica internazionale, sia nei rapporti verso una parte del mondo esterno sia nei rapporti fra di loro: soprattutto nei rapporti fra di loro, almeno fino al secondo Congresso continentale (1775) ed all’inizio della guerra con la madrepatria[175]. Soggettività giuridica che si mantenne in vita, in misura prima crescente e poi decrescente – nonché probabilmente diversa da una comunità all’altra -, almeno fino alla formazione dello Stato federale. A parte i rapporti intrattenuti con altri Stati ed eventualmente con gl’Indiani, le prime manifestazioni di questo fenomeno furono probabilmente costituite dai rapporti intercoloniali connessi con il primo Congresso continentale, al quale ciascuna colonia inviò un certo numero di delegati e dal quale uscì la prima «unione» sotto forma di un’«Associazione» delle colonie nell’azione politica comune nei confronti della madrepatria. Le manifestazioni ulteriori più salienti furono i rapporti delle singole colonie fra di loro e con il Congresso durante il lungo secondo Congresso continentale (a parte sempre gli eventuali rapporti esterni), e culminarono in quell’accordo internazionale che furono, almeno da un certo punto di vista, gli «Articles of Confederation» (votati nel 1777 ed entrati in vigore nel 1781). E il fenomeno continuò probabilmente ancora nel periodo successivo, fino a quando il governo federale non assunse il pieno controllo dei rapporti interstatuali interni e dei rapporti esterni «chiudendo», così – diremmo noi dualisti -, le comunità parziali interne all’azione del diritto internazionale.

Contemporaneamente a questa evoluzione quasi ventennale, poi – e nel rapporto che vedremo con il fenomeno internazionalistico -, la società intercoloniale presenta all’osservazione storica un fenomeno sempre più accentuato di organizzazione interindividuale, che comincia a manifestarsi in forma embrionale già entro ed intorno al primo Congresso continentale, per svilupparsi in crescendo sino all’effettiva costituzione dell’unione federale. In seno al primo Congresso continentale si doveva trattare di ben poca cosa: i regolamenti interni del collegio, certi rapporti con gl’impiegati (la maggior parte dei quali rapporti doveva risolversi – come si risolveva ancora durante il secondo Congresso – entro l’ordinamento della colonia ospitante), e quell’embrione di autorità che il Congresso doveva pur cominciare ad esercitare sui governanti e su certi gruppi di cittadini delle singole excolonie, nonostante che i suoi «poteri» formali non andassero oltre le «raccomandazioni» ed i pareri agli Stati. Va notato, tuttavia, che questo fenomeno ha certamente le sue radici nel primo Congresso continentale, il quale non solo costituì un centro di attività considerevole sin dal primo momento nei confronti d’individui, ma era composto d’individui, che, pur essendo considerati senza dubbio ufficialmente come delegati delle colonie in veste di «Stati sovrani», erano stati nominati in modo tale che questa loro qualità risultava considerevolmente attenuata – a favore dello sviluppo dell’istituzione interindividuale – da un rapporto più o meno diretto con gl’individui elettori delle singole comunità «sovrane» ed a volte di singole contee o città[176]. Negli anni successivi, ad ogni modo, il fenomeno dovette assumere proporzioni ben vaste, se il Congresso poté non solo perfezionare la propria organizzazione interna, ma disporre direttamente della forze armate messe a sua disposizione dai singoli Stati, conferire a Giorgio Washington la direzione della resistenza e della lotta per l’indipendenza, disporre delle somme raccolte dagli Stati, e dare norme e regolamenti per l’impiego e la disciplina dell’esercito e dell’armata. Poteri, questi, che, pur non essendo previsti né dal patto di «Associazione»[177], né da tutti i «mandati» conferiti ai delegati di cui il Congresso era composto, vennero consolidandosi per la forza stessa degli eventi e sotto la spinta diretta degli uomini più rappresentativi della «nazione», indipendentemente da qualsiasi investitura da parte degli Stati e certamente vari anni prima che gli «Articoli di Confederazione» entrassero in vigore. E non è necessario soffermarsi sull’evoluzione successiva che questo ordinamento evidentemente interindividuale dovette subire, nonostante gli alti e bassi di quel difficile periodo, fino all’entrata in vigore della costituzione federale.

Si percepisce sempre chiaramente, insomma, accanto al fenomeno internazionalistico – che è l’unione di Stati – l’esistenza di un’organizzazione umana vieppiù complessa ed efficiente, che si presenta prima in forme e proporzioni che la rendono percepibile quasi come un «corpo sociale» a sé entro il «corpo sociale» totale costituito dai popoli delle varie colonie insieme, e la distinguono nettamente dalle singole comunità coloniali (Congressi continentali e individui direttamente dipendenti), poi in forme man mano più complesse, nelle quali essa appare sempre più invadente rispetto alle comunità singole, fino ad assorbire quest’ultime in se stessa, costituendo l’istituzione interindividuale totale decentrata. Con il quale sviluppo procede di pari passo il graduale accentramento, nelle mani dell’istituzione centrale, dei rapporti internazionali delle singole unità componenti.

All’occhio del giurista si presentano due ordini di fenomeni giuridici in stretto rapporto di origine e d’interdipendenza, ma non per questo meno diversi. Da un lato c’è una serie più o meno complessa di rapporti giuridici paritari fra gruppi dati. Rapporti di origine spontanea o contrattuale più o meno intensi e che dal graduale scioglimento delle varie colonie dalla madre patria si spingono almeno fino al momento delle ratifiche statuali alla Costituzione federale. Dall’altro lato c’è lo sviluppo graduale d’una istituzione interindividuale di tipo gerarchico, avente il suo nucleo iniziale nel primo Congresso continentale, nei suoi promotori e nel suo «entourage» più o meno immediato, e crescente in intensità ed in efficacia obbiettiva e soggettiva fino a coprire l’intera comunità interindividuale costituita dai popoli di tutti gli Stati insieme. Istituzione nell’ambito della quale la costituzione dei singoli enti, già o tutt’ora dati per l’ordinamento paritario, venivano assumendo un valore e una rilevanza giuridici sempre crescenti, fino al momento in cui il potere centrale si considererà autorizzato a procedere direttamente contro ogni turbamento dell’ordine costituzionale legittimo entro uno Stato

Quanto al rapporto tra i due fenomeni, appare evidente dall’esame di tutto il processo evolutivo che dl fenomeno istituzionalistico interno (interindividuale), che portava l’autorità federale a diretto contatto con gl’individui alle sue dirette dipendenze nonché con strati sempre più larghi delle popolazioni delle ex-colonie, e ad assumere gradatamente quelle funzioni tipiche dell’ordinamento superiore nei confronti degli Stati membri e che già erano state svolte dall’ordinamento britannico (legittimazionederivazione, per dirla in termini kelseniani), costituiva un processo giuridicamente distinto e discontinuo rispetto ai rapporti internazionalistici paritari derivanti dall’associazione di fatto delle excolonie e dai due primi patti confederali (la «Association» suggerita dal primo Congresso continentale e gli «Articoli di Confederazione»)[178]. Vero si è che quel fenomeno istituzionalistico interindividuale viene svolgendosi entro le società umane costituite dalle varie excolonie in rapporti paritari, e soprattutto nell’ambito protettivo del patto espresso o tacito fra le comunità uguali e delle alterazioni da esso subite anche per effetto indiretto del cementamento dell’istituzione stessa e della sua graduale penetrazione diretta entro il «corpo sociale» delle singole collettività. Sviluppo, quest’ultimo, che doveva costituire un elemento d’importanza notevole per facilitare il consenso espresso o tacito delle singole comunità a stringere ulteriormente gli stessi vincoli d’ordine internazionalistico. Ed è vero altresì che esisteva un’attività del Congresso contemplata dal patto confederale e riguardante gli Stati come parti in tale patto.

Senonché, da un lato il progressivo cementamento dell’istituzione interindividuale (facente capo al Congresso) non poteva considerarsi come un portato diretto del patto nel senso in cui si può considerare portato diretto della legge o della costituzione l’esistenza dell’ordinamento corrispondente ad una persona giuridica inferiore di diritto interno. Dall’altro lato, il costituirsi dell’istituzione stessa ed il suo sviluppo progressivo come istituzione interindividuale interna e come ente soggetto di diritto internazionale non si potevano considerare sempre ed in tutto conformi ai rapporti paritari che il patto internazionalistico tendeva a mantener fermi, in misura maggiore o minore, fra le colonieStati. Sotto il primo aspetto, è evidente che il costituirsi e lo svilupparsi dell’istituzione interindividuale derivava dalle condizioni di fatto poste in essere dalle colonie o dagli Stati «uniti» in adempimento delle obbligazioni stipulate fra loro e non derivava affatto dal conferimento di «poteri» all’organo confederale. In linea teoricospeculativa ciò è escluso dalla circostanza che dal patto non derivava, a meno di non riferirsi a concezioni contrattualistiche del diritto, la soggezione delle colonie o dei loro sudditi al Congresso, ma soltanto un obbligo di assoggettamento. In linea storica, è provato dal fatto che non solo tutti i poteri esercitati dal Congresso sugl’individui alle loro dirette dipendenze, ma anche la maggior parte dei poteri esercitati via via nei confronti degli Stati rivelano in molti casi la loro esistenza in momenti anteriori ad ogni pretesa investitura formale attraverso il patto. Quanto al secondo punto, è fin troppo evidente che lo sviluppo dell’istituzione interindividuale fuori ed entro la stessa compagine sociale delle singole comunità legate dal patto non solo veniva inevitabilmente superando le disposizioni di questo che preservavano la «sovranità» delle singole comunità stesse, ma scalzava gradualmente le basi del patto d’unione dissolvendone in un più ampio organismo nientemeno che gli stessi autori e soggetti, attraverso la progressiva penetrazione entro il «corpo sociale» delle singole colonieStati[179].

Non sembra azzardato affermare, dunque, che l’ente storico-sociale che gradualmente venne acquistando una soggettività giuridica sempre più ampia nell’ambito protettivo del patto d’unione non costituì mai, in nessun momento dell’evoluzione storica quasi ventennale esaminata, un organismo giuridicamente composto di Stati nel senso in cui una persona giuridica interna costituisce un organismo giuridicamente composto d’individui. Il Congresso costituì da un lato una riunione d’individui alle cui deliberazioni le singole colonieStati erano obbligate l’una verso l’altra ad attenersi in virtù d’un contratto («obbligatorio») fra di loro – che è il valore non assoluto né interindividuale dell’attività del Congresso[180] -, e dall’altro l’embrione dell’istituzione interindividuale: il primo fenomeno in fase discendente e il secondo in fase ascendente. Lo sviluppo graduale del secondo processo alle spese dei rapporti paritari fra gruppi chiusi (cioè «sovrani»). non si potrebbe infatti interpretare come lo sviluppo dell’istituzione fra i gruppi uguali chiusi, perché esso si svolgeva sul piano interindividuale anche quando si. manifestava sotto forma d’un’azione dell’«organo» sugli Stati: perché questi, nei limiti in cui tale azione si svolgeva in maniera diretta o istituzionale – anziché come mera realizzazione di deliberazioni o voti determinanti le obbligazioni assunte dai gruppi sovrani con il patto[181] – assumevano la veste di persone giuridiche parziali dell’istituzione federale (soggetti «strumentali»), perdendo in ugual misura la veste di enti organizzati in fatto[182]. L’organizzazione giuridica, in altri termini, viene ad essere in qualunque suo stadio l’organizzazione d’una società interindividuale divisa in Stati intesi come comunità giuridiche. Non è mai stata in nessun momento l’organizzazione «interstatuale» nel senso in cui è interstatuale il diritto internazionale quale i dualisti lo intendono o dovrebbero intenderlo[183], perché tutto quel che c’è d’interstatuale in questo senso – e si è detto trattarsi d’uno sviluppo in fase discendente che cede il posto all’istituzione interindividuale – è il patto «obbligatorio» fra pares.

I monisti, che capovolgono il dato fondamentale del difetto di legittimazione degli Stati da parte del diritto internazionale intendendo gli Stati come persone giuridiche internazionali in senso stretto, interpretano naturalmente l’intera evoluzione descritta come un caso normalissimo di «fédéralisme par agrégation». Quello che per noi è il fenomeno della soggettività di base delle colonie resesi indipendenti, è pei monisti soltanto il passaggio delle comunità giuridiche già britanniche nell’ambito della comunità giuridica internazionale, entro la quale esse avrebbero continuato a presentarsi come comunità giuridiche parziali d’individui, legittimate da un diverso ordinamento superiore. Il passaggio implicherebbe, tecnicamente, dal punto di vista dei rapporti fra le excolonie, solo un maggiore decentramento rispetto al sistema entro il quale le comunità in questione esistevano. Logicamente, poi, tutto lo sviluppo successivo sopra riassunto .non sarebbe stato altro, a sua volta, che un fenomeno di «accentramento» progressivo spazialmente limitato dell’ordinamento interindividualeinternazionale. Non sussisterebbe, quindi, né una differenza di natura tra i fenomeni giuridici internazionalistici né una soluzione di continuità tra lo sviluppo dell’istituzione interindividuale accentrata ed i rapporti paritari creati dal patto d’«unione» fra le comunità politiche. Con la conseguenza che sarebbe perfettamente possibile – per chi accetti la deformazione della realtà dalla quale i monisti muovono – concepire l’organizzazione effettiva dell’unione come un fenomeno che si sia aggiunto al patto per creare l’«organizzazione» giuridica internazionalecostituzionale[184]. Ma per la ragione opposta questa possibilità è preclusa ai dualisti che si tengano fedeli al dato fondamentale del difetto di legittimazione degli Stati e del carattere noninterindividuale della comunità giuridica internazionale.

Quanto alla comparazione fra le due tesi, l’obbiezione fondamentale ai monisti è quella già ricordata a proposito della nozione pubblicistica degli Statisoggetti e dell’accordo. Essi non dimostrano in che senso ed a quali effetti le comunità distinte delle excolonie potessero considerarsi come delle «istituzioni interindividuali» dell’ordinamento internazionale. Ma questa è solo l’obbiezione d’ordine generale. In linea specifica va ancora rilevato che la teoria monista finisce per presentare la costituzione federale come un mero sviluppo del patto internazionalistico, e questo stesso patto come un fenomeno giuspubblicistico, mentre l’evoluzione storica descritta dimostra chiaramente che la «more perfect union» è il frutto della graduale costituzione materiale e formale della «nazione americana» e non dell’accordo fra i tredici Stati[185]. Il che dimostra quanto sia assurdo ritenere che la data di nascita della federazione americana sia il 1o o il 6 aprile 1789[186].

§ III. – Estraneità dell’elemento istituzionale-interindividuale

al diritto internazionale

Sommario: 30. Conclusione negativa in merito all’appartenenza del fenomeno istituzionaleinterindividuale all’ordinamento internazionale. Impossibilità di superare questa difficoltà sul piano del diritto convenzionale o consuetudinario mantenendosi nell’ambito della teoria dualista.

30. – Per concludere il non facile discorso sull’aspetto ambientale ed organico-istituzionale del problema e sul rapporto fra tale aspetto e quello normativo considerato nel capitolo precedente, la teoria dualista delle unioni appare viziata, a nostro modesto avviso, da una gran confusione. Fondamentalmente c’è confusione, soprattutto, fra la concezione monista e quella dualista del diritto internazionale. Qua e là c’è una nozione affatto impropria del fenomeno dell’organizzazione giuridica in qualunque società. Ed infine c’è forse una strana oscillazione fra l’idea di un’organizzazione internazionale avente per soggetti elementari gl’individui e l’idea completamente diversa e probabilmente insostenibile di un’organizzazione fra soggetti elementari collettivi intesi come enti di fatto. Ma per intendersi è meglio considerare tutte le possibilità.

Innanzi tutto bisogna che la dottrina dualista spieghi che cosa intende dire quando parla di. una istituzione internazionale con riferimento agli organismi delle unioni confederali ed agli organismi corrispondenti alla Società delle Nazioni ed alle Nazioni Unite, alle unioni regionali ed alle unioni amministrative.

1) Se s’intende soltanto dire che gli organismi in questione sono o possono diventare dei soggetti di diritto internazionale, si dice troppo poco, perché il fatto che un ente sia soggetto in un ordinamento non significa che esso sia una istituzione dell’ordinamento stesso. Gli Stati unitari e federali, la Santa Sede, gl’insorti, i comitati nazionali e via dicendo son tutti soggetti dell’ordinamento internazionale, ma non sono affatto, per noi dualisti, delle istituzioni internazionali. Lo Stato unitario o federale sta all’ordinamento internazionale, non già come la società commerciale, il comune, la provincia, o lo Stato membro sta all’ordinamento statuale, ma piuttosto come l’individuo sta all’ordinamento statuale. L’idea dello Stato «legittimato» dall’ordinamento internazionale come una «provincia» del mondo è monista.

2) Se invece, la dottrina in esame intende dire che l’ente in questione è una istituzione internazionale non solo nel senso di «soggetto», ma anche e soprattutto nel senso di organizzazione giuridica retta dall’ordinamento internazionale, bisogna che essa si decida a chiarire quali enti esattamente questa istituzione dovrebbe avere come componenti ed agenti: gl’individui o gli Stati.

a) Se gli enti elementari componenti l’istituzione sono gli Stati, bisogna chiarire in primo. luogo se s’intendono gli Stati componentiagenti sempre come formazioni sociali di fatto, chiuse all’azione dell’ordinamento internazionale quale i dualisti lo intendono, oppure se si pensa agli Stati come istituzioni interindividuali, ossia come persone giuridiche.

) Se s’intendono gli Stati membriagenti nel primo senso, bisogna spiegare innanzitutto in che modo si configurino gli agenti sociali individuali non statuali (segretario generale delle Nazioni Unite), e gli «organi» collegiali composti d’individui non organi di Stati (Corte internazionale di giustizia). Poi bisogna spiegare come possa un contratto fra «privati» determinare rapporti gerarchici (questo per le dottrine che fanno leva sul mero accordo). Infine bisogna spiegare in qual modo, in ogni caso, l’accordo o la norma consuetudinaria possa determinare rapporti del genere senza implicare la confusione degli Stati in un superstato regionale o nel superstato universale, con conseguente eliminazione parziale o totale del fenomeno giuridico internazionalistico quale i dualisti lo intendono. E poiché la prima spiegazione è impossibile (dato che non si potrebbero mettere insieme entro l’organismo dell’unione quegl’individui singoli e quegli Stati come gruppi chiusi che non stanno insieme nell’ordinamento totale), restano solo due possibilità: o l’organismo è un ente elementare composto d’individui o è il superstato: possibilità che si risolvono nella prima, intendendosi l’ente elementare interindividuale in cui l’organismo si concreta come l’eventuale o eventualissimo embrione del superStato regionale o universale.

) Se invece s’intendono gli Stati componentiagenti nel: secondo senso, cioè come istituzioni, siamo nell’ipotesi più piana di tutte, che è quella dei monisti. Con la differenza. però, che mentre per i monisti questa ipotesi è realizzata o realizzabile perché è nella logica del loro sistema, pei dualisti si tratta o di dimostrare ch’è venuto meno il sistema loro, oppure di spiegare in qual modo, nonostante la permanenza di quest’ultimo, il risultato sia conseguibile. Pei monisti gli «Stati»soggetti son già e son sempre stati, come s’è detto, delle «istituzioni». E gli accordi fra Stati, in quanto atti interistituzionali, sarebbero idonei a creare organi ulteriori fino al governo mondiale. I dualisti, invece, a meno che non abbandonino la loro interpretazione della realtà internazionale, dovrebbero spiegare che l’accordo o la norma consuetudinaria costitutiva dell’unione, pur traendo il suo valore giuridico dall’ordinamento paritario della comunità degli Stati come enti collettivi di fatto, determini l’esistenza di organismi interindividuali allaccianti fra loro gli Stati come istituzioni interindividuali. Risultato che è altrettanto verosimile quanto la nota storiella – ricordata dal Verdross ad altro proposito – di quel barone che si teneva a galla reggendosi la testa fuori dell’acqua.

b) Se infine si vuol dire che i componentiagenti sono gli individui, bisogna spiegare se gl’individui restino in condizione di meri oggetti di diritto internazionale e gli ordinamenti in questione restino dei meri fatti (al pari degli ordinamenti statuali), oppure se gl’individui siano elevati a soggetti di diritto internazionale e gli ordinamenti delle unioni siano assunti come ordinamenti derivati.

) Nella prima ipotesi siamo daccapo di fronte ad un ente soggetto elementare anziché all’istituzione. Siamo cioè nell’ipotesi sub 1).

) Nella seconda ipotesi s’incorre nella difficoltà di spiegare in qual modo l’ordinamento della comunità paritaria degli Stati ponga in essere la soggettività degl’individui e determini la giuridicità degli ordinamenti «derivati» in questione, vuoi mediante un semplice contratto obbligatorio, vuoi mediante una norma consuetudinaria, l’esistenza della quale non butti all’aria l’intera «costituzione» dell’ordinamento paritario e interstatuale della comunità internazionale. E qui c’è vuoi l’impossibilità che un accordo fra Stati«privati» determini effetti quali l’inclusione degl’individui nella comunità giuridica interstatuale e l’esistenza di ordinamenti parziali interindividuali, vuoi l’impossibilità di ritenere che una norma consuetudinaria di tanta portata rivoluzionaria sia entrata a far parte dell’ordinamento internazionale lasciandone intatto il carattere interstatuale: e questo prima ed indipendentemente dall’esistenza di quella norma di legittimazione-delimitazione degli ordinamenti statuali, che costituisce la condizione sine qua non perché l’ordinamento internazionale possa considerarsi come l’ordinamento del genere umano anziché l’ordinamento paritario di un gruppo di comunità politiche da esso non organizzate giuridicamente. Data l’impossibilità di dimostrare tutto ciò, si torna dunque anche per questa via all’ente soggetto elementare. Non risultando dimostrata né la soggettività degl’individui né la giuridicità degli ordinamenti interni degli organismi in questione, questi non differiscono da uno Stato o da un partito insurrezionale. Salvo a vedere se non siano molto di meno dal punto di vista della loro «capacità».

Fino a quando la dottrina dualista non dimostri la possibilità di una delle soluzioni alternative scartate, l’organizzazione effettiva d’un ente internazionalmente costituito può dunque essere intesa soltanto come un possibile ente elementare più o meno vitale dell’ordinamento internazionale, del quale si tratta di precisare il rapporto con il patto d’unione e gli Stati contraenti. Esso non è né un elemento dell’ordinamento internazionale parziale, né l’istituzione internazionale corrispondente all’unione qualunque sia la misura della sua capacità secondo le norme generali. Sia che esso non goda ancora della soggettività, sia che goda d’una soggettività limitatissima (come quella d’un partito insurrezionale, di un comitato nazionale o d’un governo in esilio), sia che vada evolvendosi in un superstato regionale o universale acquistando gradualmente la soggettività corrispondente, l’ente in questione resta sempre un soggetto elementare.

Resta dunque fermo che un fenomeno di organizzazione internazionale può essere ravvisato, dal punto di vista dualista, solo nei fenomeni egemonici che eventualmente si sviluppino sul piano regionale o universale fra i soggetti elementari: compresi fra questi, eventualmente, gli stessi enti soggetti elementari corrispondenti ai meccanismi d’unione nei confronti degli stessi Stati «membri» che conservino ancora una individualità distinta.

Si tratta ora di definire più esattamente i tre distinti fenomeni individuati e le possibili loro relazioni: – contratto di unione, meccanismo interindividuale corrispondente all’unione e fenomeni egemonici.

V

CONCLUSIONI: «ORGANI DI FUNZIONI», PROCESSI EGEMONICI

E FENOMENI ISTITUZIONALI INTERINDIVIDUALI

§ I. – I meccanismi di unione come «organi internazionali di funzioni»

e il problema della loro soggettività giuridica.

I processi egenomici

Sommario: 31. Le unioni di Stati come contratti meramente obbligatori e i meccanismi delle unioni come «organi di funzioni» (con particolare riguardo alla Società delle Nazioni e alle Nazioni Unite). Correzione della teoria dominante degli «e organi di funzioni» dal punto di vista del «valore» dei fatti posti in essere dai meccanismi. – 32. Il fenomeno della soggettività del meccanismo d’unione come possibilità distinta da quella dell’esistenza dell’«istituzione internazionale» corrispondente all’unione. Conciliabilità della soggettività del meccanismo a certi effetti con la sua qualità di mero «organo di funzioni» agli effetti del patto d’unione -33. Possibilità teorica di riscontrare un fenomeno di organizzazione internazionale nell’egemonia e nei direttorii di potenze sul piano del diritto internazionale non scritto. Riserve. Critica della confusione corrente fra questi fenomeni e la prevalenza delle maggiori potenze in seno agli «organi di funzioni» corrispondenti alle unioni.

31. – Per cominciare dai fenomeni, unionistici, dei quali vedremo poi gli eventuali nessi con quelli egemonici, il valore meramente «obbligatorio» dell’accordo porta a ritenere che sul piano strettamente internazionalistico – ossia sul piano dei rapporti tra i gruppi soggetti della comunità paritaria, chiusi all’azione del diritto «esterno» – le unioni determinano (ma non «costituiscono») dei fenomeni di organizzazione che stanno al di sotto, e non al di sopra degli enti soggetti primari dell’ordinamento. Il che equivale appunto a dire che non determinano nessun fenomeno di organizzazione giuridica nell’ambito del diritto internazionale inteso dualisticamente[187]. Ciò è dimostrato del resto in maniera evidente -a parte le ragioni d’ordine tecnico sinora esposte – proprio dal fatto che il massimo sviluppo dell’unione regionale coincide logicamente ed è sempre coinciso nella storia con la costituzione d’un soggetto elementare nuovo e più ampio, che viene a porsi accanto agli altri come un soggetto «qualunque» dell’ordinamento paritario. E nel caso limite dell’unione universale, il massimo sviluppo coincide con l’annichilamento della stessa ragion d’essere dell’ordinamento internazionale, e quindi della possibilità stessa di concepire l’ente risultante come un’autorità sovraordinata agli Stati in base allo ordinamento internazionale stesso[188].

Secondo il nostro modo di vedere, i trattati di unione politica universale o regionale determinano l’esistenza di una serie di rapporti meramente obbligatori fra gli Stati membri, non diversi dai rapporti che si costituiscono per effetto di qualunque trattato del tipo di quelli che la dottrina generalmente qualifica come trattati-contratto. La sola loro caratteristica è il fatto che essi pongono agli Stati contraenti obblighi strumentali relativi alla creazione di certi meccanismi e punti d’incontro più o meno stabili, ed obblighi sostanziali il cui concretamento dipende nella maggior parte dei casi dal formarsi di certe determinazioni in seno a quei meccanismi e dal contenuto di queste determinazioni[189]: meccanismi che non per questo si possono definire come «organizzazioni giuridiche» della comunità internazionale e dei suoi soggetti, e tanto meno corrispondono a ordinamenti o comunità parziali od a persone giuridiche in senso proprio[190].

Da un lato l’accordo è idoneo a porre norme a rapporti obbligatori fra i contraenti, ma non è idoneo a costituire l’ordinamento parziale, ad attribuire soggettività giuridica ad individui o ad altri enti, nè a modificare la condizione di pares dei contraenti. Da un altro lato esso pone a carico ed a vantaggio dei contraenti una serie di obblighi tendenti ad ottenere sia la costituzione materiale di certi meccanismi ed il loro funzionamento, sia la determinazione o il concretamento, attraverso l’opera dei meccanismi stessi, del contenuto di rapporti obbligatori virtualmente posti dalle norme dell’accordo stesso. E la risultante più logica di questi elementi negativi e positivi è che i meccanismi stessi (salva la possibilità che siano elevati a veri e propri organi di una comunità giuridica interindividuale nell’ambito di ordinamenti diversi: possibilità remotissima per le unioni universali e meno remota per le unioni regionali) svolgono un’attività che conduce alla realizzazione di fatti che le norme poste dall’accordo «istitutivo» contemplano come idonei a concretare norme-rapporti obbligatori fra i contraenti[191].

Tecnicamente, nello Statuto delle Nazioni Unite si troverebbero innanzi tutto obbligazioni direttamente assunte in relazione ad ipotesi, fatti e rapporti determinati direttamente dall’accordo e non diverse per nulla dalle obbligazioni reciproche contrattualmente assunte da due o più Stati con qualunque altro accordo[192]. Tipica l’obbligazione degli Stati «membri» di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza (art. 2), che non appare diversa per nulla, in sè e per sè, dall’obbligazione di non ricorrere alla guerra stipulata con il Patto Kellogg del 27 agosto 1928. Analoga, in parte, perché, anch’essa non prevede la composizione delle controversie attraverso i meccanismi previsti dall’accordo, è (entro questi limiti) l’obbligazione di regolare le controversie con mezzi pacifici (art. 2 e art. 33). Ed analoghe le obbligazioni dirette attinenti alla conclusione di accordi regionali (art. 52), al riconoscimento della prevalenza degli obblighi posti dall’accordo su quelli derivanti da altri accordi (art. 103), al promuovimento del progresso politico, economico, sociale e culturale degli abitanti dei territori non autonomi (art. 73) e via dicendo[193]. Accanto a queste disposizioni, poi, che non differiscono in nulla dalle stipulazioni di qualsiasi altro trattato obbligatorio, ve n’è una serie molto più numerosa che, pur riguardando sempre la condotta degli Stati contraenti ed esclusivamente degli Stati contraenti, attengono sia alla costituzione materiale ed al funzionamento dei meccanismi previsti dall’accordo, sia all’atteggiamento che gli Stati contraenti sono obbligati a tenere nei confronti degli altri, in seguito al verificarsi, oltre che di ipotesi analoghe a quelle previste dalle stipulazioni dirette della prima categoria, di certe .determinazioni o pronuncie poste in essere, attraverso la procedura stabilita, nell’ambito dei meccanismi stessi. Determinazioni e pronuncie che si presentano, rispetto alle norme che le contemplano, come fatti giuridici in senso stretto ai quali è connessa dall’accordo una funzione condizionante e determinatrice delle obbligazioni più o meno astratte (dal punto di vista oggettivo) virtualmente poste dall’accordo stesso a carico dei contraenti. Appartengono a questa categoria la maggior parte delle norme contenute negli accordi del genere dello Statuto delle Nazioni Unite, del Patto della SdN e degli Statuti degli Istituti specializzati (unioni amministrative): il che è perfettamente naturale dato che gli atti internazionali in questione tendono appunto ad utilizzare i procedimenti e i meccanismi in questione allo scopo di dare maggior peso ed elasticità alle obbligazioni reciproche assunte dai contraenti. Nello Statuto delle Nazioni Unite, p. es., appartengono a questa categoria l’obbligazione fra i membri di mettere a disposizione dell’«organizzazione» i contributi finanziari per il suo funzionamento nella misura da stabilirsi dall’Assemblea (art. 17); l’obbligo di sottoporre certe controversie al Consiglio per la sicurezza (art. 37); l’obbligo di eseguire le decisioni del Consiglio relative al mantenimento della pace e della sicurezza (art. 25 e 48); l’obbligo di mettere a disposizione del Consiglio i contingenti di forze armate da fissarsi in consultazione con esso, sia in linea di massima mediante la stipulazione di appositi «accordi» sia in casi determinati per l’impiego delle forze stesse (art. 43); l’obbligo di sottoporre certi rapporti al Consiglio per le tutele sull’andamento dell’amministrazione dei territori non autonomi (art. 73 e). E l’elencazione potrebbe continuare per un pezzo[194].

In tutti questi casi, la dottrina che vede nelle Nazioni Unite e negl’istituti analoghi delle persone giuridiche e degli ordinamenti «speciali» parla di norme di organizzazione dell’«istituzione corporativa» e di attribuzione a questo ente di funzioni, diritti, obblighi, poteri nei confronti dei membri ed eventualmente dei terzi[195]. Noi riteniamo, invece, che sia più conforme alla nozione di persona giuridica, alla portata dell’accordo ed al difetto di soggettività degl’individui che operano in seno agli organismi, configurare l’operato di questi ultimi come la realizzazione di meri fatti giuridici in senso stretto integrativi di rapporti obbligatori fra i membri[196]. Del che vedremo presto il rapporto con gli eventuali fenomeni di soggettività giuridica facenti capo al meccanismo e con l’eventuale sviluppo del meccanismo in un super-stato regionale o universale[197].

Quanto alla definizione tecnica del fenomeno in questione, salvo quanto si verrà dicendo qui di seguito sugli altri aspetti ch’esso assume, la funzione svolta dai meccanismi delle unioni è in tutto e per tutto analoga a quella svolta a nostro avviso dagli enti ai quali il Perassi dà il nome di «organi internazionali». Non si tratta, cioè, nè di organi della comunità internazionale, nè di organi dell’unione, nè di organi dei singoli Stati, e nemmeno di «organi comuni»[198]. Si tratta solo di «congegni» costituiti contrattualmente dagli Stati «ed azionati da uno o più individui, che, prestando la loro naturale attitudine di pensare, volere ed agire», li rendono «idonei ad esplicare attività giuridicamente rilevanti». Attività che consistono nel porre in essere dei «fatti giuridici in senso stretto»[199]. La sola differenza essenziale rispetto al concetto perassiano dell’organo di funzioni – a parte il problema della soggettività – è che la rilevanza giuridica dei fatti posti in essere dai meccanismi di. unione (al pari di quella di ogni altro organo di funzioni) non va per noi mai al di là degli effetti meramente «obbligatori»[200]. E: vedremo presto che la teoria del Perassi richiede ancora una altra importante precisazione dal punto di vista della soggettività giuridica dei meccanismi in parola ad effetti diversi da quelli per i quali l’ente opera come organo di funzioni[201].

Ci rendiamo perfettamente conto che questa costruzione appare molto meno allettante delle più eleganti ed ottimistiche costruzioni; moniste o monisteggianti, che amano presentare. il Patto della Società delle Nazioni e lo Statuto delle Nazioni Unite come «costituzioni imperfette». Senonché, a parte il fatto che non riteniamo che il compito degl’internazionalisti sia quello di dipingere il mostruoso ordinamento che studiano in modo diverso da quello in cui esso realmente si presenta, la costruzione.proposta ci sembra la sola che corrisponda alla distinzione che si è cercato di far risaltare fra il contratto paritario atipico fra Stati «sovrani» ed il fenomeno istituzionale interindividuale che in certe confederazioni regionali si è venuto sviluppando entro l’involucro protettivo del patto, per sostituirsi ad un certo punto al patto stesso nell’ambito di una comunità interindividuale più ampia. Che del resto non si trovino realizzate nè l’istituzione interindividuale nè quella interstatuale, ma soltanto dei rapporti obbligatori fondati sulla buona fede degli Stati contraenti, è largamente dimostrato dai risultati che gl’istituti in questione hanno notoriamente conseguiti sinora, dalla precarietà della loro esistenza, dalla loro frequente denominazione come «fori» e «tribune», dal rilievo generale della necessità della buona volontà persistente degli Stati di farli funzionare[202], e dall’idea diffusissima – non solo fra i giuristi – che essi non costituiscono un vero superamento dei sistemi della diplomazia tradizionale rispetto ai quali innovano soltanto per certi speciali accorgimenti[203].

Quello che soprattutto va rilevato e che il carattere paritario del sistema nel quale s’inseriscono, e la loro inettitudine a realizzare l’organizzazione giuridica della società, esclude che gli accordi di unione in sè e per sè producano modificazioni di struttura dell’ordinamento internazionale e sul piano regionale e tanto meno sul piano universale[204]. Il sistema giuridico internazionale rimane essenzialmente intatto per quanto riguarda l’assenza di organizzazione, e resta soltanto modificato o arricchito (in maniera precaria) dal contenuto delle obbligazioni reciproche degli Stati l’uno rispetto all’altro. L’effetto dei trattati di c.d. «organizzazione», in altri termini, non è diverso dall’effetto che possono avere in una società interindividuale quei contratti atipici con. i quali gl’individui si «obbligano» ad attenersi alle pronuncie arbitrali di certi privati o alle loro determinazioni, indipendentemente dal costituirsi di quei rapporti di sovraordinazione e subordinazione nei quali si ravvisano i fatti normativi costitutivi dell’ordinamento o dell’istituzione.

Se delle differenze sussistono fra i due fenomeni, esse depongono nel senso della maggiore difficoltà dell’organizzazione fra Stati. Nell’uno come nell’altro caso, il miglioramento deriva dall’adempimento da parte dei soggetti delle obbligazioni assunte e consiste soltanto nell’attenuazione di certe durezze del sistema paritario attraverso l’utilizzazione dei sistemi istituiti (e nella misura in cui essi sono effettivamente utilizzati in buona fede dai contraenti) nonché nei risultati indiretti che questo elemento positivo determina, sia come incentivo al perfezionamento dei sistemi adoperati, sia agli effetti ancora meno diretti dell’eventuale superamento del sistema esistente. Nella società interindividuale, però, dove il sistema paritario è superato o non è mai esistito, i sistemi privatistici di produzione e di accertamento del diritto sono più suscettibili di costituire, direttamente o indirettamente, una premessa di sviluppi istituzionalistici, sia per la tendenza naturale delle società individuali all’organizzazione, sia per l’azione diretta del potere costituito. Nella società internazionale, invece, gli effetti diretti e indiretti sono molto più problematici, tanto per il carattere e il numero limitato dei soggetti e la natura degli interessi in gioco quanto e soprattutto per la naturale refrattarietà dei gruppi a costituire rapporti di sovraordinazione e subordinazione e l’inesistenza di un potere che ad un certo stadio dello sviluppo elevi i meccanismi costituiti contrattualmente ed a titolo precario ad elementi istituzionali del sistema[205].

32. – Il fatto che non venga creata con l’accordo una istituzione e che comunque questa istituzione non si possa rinvenire, per quanto si è detto, anche se funzionassero norme consuetudinarie, nel meccanismo interindividuale dell’unione non esclude, come sembrano ritenere alcuni fra i sostenitori delle tesi tendenzialmente negative, che il meccanismo interindividuale dell’unione acquisti una qualche misura di soggettività giuridica internazionale. E non è a nostro avviso esatto che un fenomeno di soggettività del genere implicherebbe necessariamente – come è stato sostenuto ultimamente – la cessazione dell’indipendenza o della sovranità e quindi della soggettività internazionale degli Stati «membri» dell’unione. Il che non significa, d’altra parte, che l’ente corrispondente al meccanismo in questione acquisti, con quella certa dose di soggettività internazionale, i «poteri» e le «funzioni» previsti dallo statuto dell’unione o diventi comunque una «istituzione» o un «ente morale» internazionale.

Come è noto, dovunque esista un ente dotato d’un certo grado d’indipendenza ed operante sul piano dei rapporti internazionali, esiste un possibile titolare di diritti e doveri internazionali derivanti dalle norme non scritte: ivi compreso, eventualmente, il potere di concludere validamente dei trattati. Tanto la dottrina che la prassi, infatti, riconoscono gli estremi della soggettività giuridica in molti enti che, per la misura limitata della loro sfera d’interessi internazionali o della loro indipendenza da altri enti, godono di forme tenuissime di soggettività giuridica suscettibili sia di svilupparsi verso forme di soggettività più ampia come di estinguersi del tutto entro un periodo più o meno breve. Nel caso dei meccanismi in questione, quali che siano lo scopo dell’unione e le proporzioni della sua attività sul piano delle relazioni internazionali, non c’è dubbio che esistano il più delle volte degli organismi la cui stessa esistenza ed il cui funzionamento implicano che essi entrino in rapporti con i singoli Stati contraenti o con gli Stati estranei, nonostante il fatto che restino tuttora in vita sia gli Stati soggetti membri dell’unione (con un certo grado più o meno decrescente di soggettività giuridica), sia i rapporti contrattuali esistenti fra gli Stati stessi e legati nel modo che s’è visto alle determinazioni delle assemblee e dei consigli del meccanismo d’unione.

a) Non vi è ragione d’escludere – per fare l’ipotesi meno probabile ma di più frequente realizzazione nei fenomeni unionistici più controversi – che il complesso dei meccanismi facenti capo al Segretariato della SdN o delle Nazioni Unite godano in base al diritto comune dei privilegi e delle immunità diplomatiche, nè ch’essi svolgano eventualmente delle attività dirette o indirette intese ad ottenere da uno Stato «membro» o non «membro» dell’«unione» il riconoscimento di questi diritti: oppure il riconoscimento, per esempio, del passaporto delle Nazioni Unite.

b) Se nel caso delle Nazioni Unite (o di qualsiasi altro istituto del genere) è difficile che la soggettività del meccanismo in questione aumenti in misura considerevole al di fuori d’una .sfera ristrettissima di rapporti, vi sono stati e possono esservi dei casi in cui si verifica un aumento tale delle capacità materiali e delle attività dell’organismo d’unione, da portare questo ente interindividuale non solo ad istituire rapporti internazionali e legazioni permanenti, ma anche a concludere trattati di commercio ed amicizia e persino. a dichiarare e condurre una guerra, sottraendo in tutto od in parte queste prerogative agli Stati in «unione». Un caso in cui tutto questo è accaduto, per esempio, è certamente quello del Congresso americano, allorché esso è venuto accentrando gradualmente nelle proprie mani le relazioni esterne delle tredici colonie, senza che questo importasse ancora necessariamente l’estinzione della personalità degli Stati legali dal patto confederale, nè del patto confederale stesso[206].

È tuttavia necessario non equivocare sul significato di questi fenomeni per la definizione dell’«unione». Essi non implicano affatto – né nel primo caso nè nel secondo – l’esistenza di una «istituzione» o «società» degli Stati corrispondente al patto, e tanto meno l’acquisto da parte dell’ente reale in questione, nei confronti degli Stati contraenti, di poteri o funzioni internazionali corrispondenti alle attività meramente materiali svolte dal meccanismo in quanto «strumento» del patto. Il fatto che l’ente diventi titolare di certi diritti o doveri sul piano del diritto non scritto non significa che esso diventi un soggetto anche agli effetti delle attività che svolge come strumento di determinazione dei rapporti obbligatori previsti più o meno direttamente dal patto. Basta pensare che il fenomeno di soggettività che viene sviluppandosi in capo all’ente in formazione è un fenomeno di soggettività primaria e non importa, in linea di massima, alcuna sovraordinazione dell’ente agli Stati in unione, mentre la trasformazione delle attività materiali svolte dall’ente in esplicazione di «poteri» e «funzioni» del soggetto corrispondente al meccanismo implicherebbe la supremazia dell’ente sugli Stati. Che se dei rapporti del genere vengono a costituirsi, si tratta di tutt’altra cosa che dell’evoluzione del patto stesso.

a) Per cominciare dalla .prima ipotesi – che è non soltanto più frequente ma la sola che valga la pena di considerare in relazione a fenomeni unionistici tipo Società delle Nazioni e Nazioni Unite -, il. meccanismo d’unione verrà acquistando, sul piano del diritto consuetudinario internazionale, soltanto delle situazioni giuridiche in un certo senso «strumentali» (materialmente strumentali, beninteso) rispetto all’«attività» che esso svolge come «organo di funzioni» nel quadro del patto, ed agli effetti meramente obbligatori che abbiamo visti. Non ci dovrebbe essere nemmeno pericolo, quindi, di confondere, p. es., la titolarità da parte delle Nazioni Unite dei diritti connessi alle relazioni diplomatiche con l’attività che l’Assemblea. ed i Consigli svolgono in quanto «organi internazionali» od «organi di funzioni» sul piano meramente contrattuale. Sotto il primo aspetto le Nazioni Unite – o meglio gli organismi creati dalle Nazioni Unite per far funzionare il patto obbligatorio – si presentano come un ente soggetto vero e proprio. Ma questa soggettività – e qui torna particolarmente utile quel concetto di personalità come titolarità di singoli diritti o doveri che la dottrina italiana più recente è venuta sostituendo al concetto formale di personalità come qualità abilitante generica[207] – non si riflette necessariamente sulla posizione dell’organismo entro il sistema del patto. Il patto può anche parlare – come certamente parla – di «funzioni» e «poteri» delle Nazioni Unite. Ed il fatto che ad un certo punto le Nazioni Unite si concretino in un ente reale potrebbe far pensare che almeno a questo punto quei «poteri» e quelle «funzioni» vengano a far capo al meccanismo e siano da questo esercitati nei confronti degli Stati «membri». È d’altra parte evidente non solo che il primo sviluppo non implica comunque necessariamente il secondo, ma soprattutto che i due fenomeni trovano la loro fonte in norme distinte e diverse. La titolarità dei diritti e doveri connessi con i rapporti diplomatici scaturisce dalle norme consuetudinarie materiali dell’ordinamento, che ricollegano queste situazioni all’esistenza degli estremi delle loro fattispecie nell’ente dato. I c.d. «poteri» e le c.d. «funzioni» dovrebbero invece scaturire dal patto d’unione. E il fatto che il patto d’unione non sia idoneo a conferirli non è eliminato dalla mera circostanza che l’ente al quale sarebbero destinati è titolare di altri diritti o doveri internazionali. Anche nel diritto interno, salvo che funzionino norme idonee allo scopo, il fatto che un individuo goda della personalità giuridica non significa che due o più privati possano conferirgli «poteri» e «funzioni» giuridiche nei loro confronti. Con un contratto meramente obbligatorio, i soggetti possono solo obbligarsi gli uni verso gli altri ad attenersi a certe determinazioni del «terzo», il quale appare in veste di soggetto solo agli effetti del rapporto di prestazione d’opera che lo lega alle parti[208]. La sola possibilità che un meccanismo come quello delle Nazioni Unite acquisti «poteri» e «funzioni» nei confronti degli Stati «membri», a parte l’ipotesi remotissima ch’esso si sviluppi nell’istituzione interindividuale universale ponendosi rispetto agli Stati come governo federale, è dunque ch’esso acquisti una consistenza propria, che lo porti ad assumere una funzione di «Stato guida»: nel qual caso si avrebbe forse un fenomeno istituzionale internazionale in tutt’altro senso (num. seg.). Ma questa è un’ipotesi che è meglio considerare con riferimento alle unioni, confederali chiuse.

b) Nella seconda ipotesi – difficilmente estensibile, oggi oltre le unioni regionali chiuse – il meccanismo potrà venire «crescendo» notevolmente in proporzioni ed in autonomia, grazie soprattutto al suo sviluppo interno come istituzione interindividuale autonoma avente per componenti ed agenti degl’individui. Sviluppo che in questo caso si può senz’altro considerare fino alla sua conclusione logica, costituita dalla formazione originaria d’uno Stato nuovo, costruito sul materiale sociale già suddiviso fra i vari Stati in unione. Ma se è vero che gl’individui componenti l’«organismo» più ampio vengono gradualmente sottratti, per opera dell’istituzione in formazione, dalle sfere statuali in cui si trovavano totalmente incapsulati; e se è vero che questo assorbimento implica l’inclusione degli stessi Stati come comunità parziali nell’istituzione maggiore agli effetti dei rapporti interstatuali-internazionali interni a quest’ultima – donde il duplice effetto della soggezione degl’individui e degli Stati stessi alla istituzione interindividuale in formazione -, se è vero tutto questo, dico, è anche vero che questa istituzione in formazione non è e non sarà mai in nessun momento l’istituto internazionale corrispondente all’unione. L’assoggettamento degl’individui e la «incorporazione» graduale degli Stati come persone giuridiche od ordinamenti parziali entro l’istituzione non costituiscano altro, al pari di questa istituzione stessa, che dei fenomeni di diritto interindividuale. Sono fenomeni che si svolgono all’ombra del patto, non c’è dubbio, ma non sono il patto stesso e non ne modificano i termini. Nei limiti in cui gli Stati contraenti mantengono un certo grado di quella indipendenza che vanno perdendo a vantaggio dell’istituzione più grande, questo sviluppo in sè e per sè non esclude che essi restino legati internazionalmente fra loro sulla base del patto. E nell’ambito del patto, per quanto ristretta possa diventarne la funzione, quello stesso organismo che si evolve a spese degli Stati membri ed esercita su di essi una supremazia sul piano interindividuale interno, resta sempre il meccanismo d’unione in funzione di «organo internazionale» nel senso che s’è visto.

Se un processo istituzionale internazionale si verifica in connessione con questo sviluppo, esso sarà piuttosto, ancora una volta, un fenomeno di egemonia dell’istituzione interindividuale interna in formazione sugli Stati in «unione». Si tratterà, cioè, dell’assunzione da parte della prima – considerata nella sua totalità e come fenomeno in sè e per sè extra-internazionalistico – d’una posizione di supremazia effettiva sui secondi, analoga a quella che qualsiasi altra «potenza» può assumere nei confronti di altre sul piano regionale o sul piano universale. E questo sempre nei limiti in cui tale supremazia si faccia sentire sul piano dei rapporti internazionalistici residui fra gli Stati in unione e fra ciascuno di questi e l’ente in formazione, e non si risolva invece entro la sfera interindividuale interna di questo ultimo. Anche tale fenomeno, tuttavia, che non va confuso con il processo istituzionale interindividuale, non è in rapporto diretto con il sistema contrattuale integrato dall’attività dell’ente come «organo internazionale»: In primo luogo, la supremazia dell’ente sugli Stati in «unione» si risolverà unicamente, posto che assuma una certa rilevanza giuridica, in funzioni e poteri allo stato vago e diffuso, esercitati all’esterno dei meccanismi stessi d’unione e difficilmente inquadrabili come attuazioni dei cosiddetti «poteri» e delle cosiddette «funzioni» conferite dal patto al meccanismo. In secondo luogo – e questo è l’essenziale -, gli Stati contraenti non cesseranno di vedere nell’ente un meccanismo contrattuale, se non in quanto essi si trovino assoggettati al potere dell’ente centrale in veste di organismo istituzionale interindividuale interno: soltanto in quei limiti, cioè, in cui l’ente si pone nei loro confronti come governo federale nell’ambito del diritto costituzionale in formazione. Nei rapporti internazionalistici – per quel poco che ne rimanga – il nuovo ente soggetto resta nonostante tutto l’«organo internazionale di funzioni». Il che non esclude, d’altra parte uno stretto rapporto storico d’interdipendenza tra il fenomeno unionistico-contrattuale in sè e per sè, il fenomeno effimero di supremazia internazionalistica, e la formazione istituzionale interindividuale.

Resta comunque chiarito, se non c’illudiamo, che l’esclusione dell’esistenza dell’istituzione internazionale nelle unioni regionali e universalistiche meno evolute (ed a fortiori nelle unioni a fini particolari tipo «istituti specializzati»), e la costruzione tecnica del fenomeno come «organo internazionale» od «organo di funzioni», non implicano la negazione dell’esistenza di una soggettività .giuridica più o meno limitata dell’organismo d’unione inteso come ente elementare (non giuridicamente composto dall’ordinamento internazionale). Si tratta solo di due diversi aspetti e. misure in cui l’attività dell’ente in questione assume rilevanza giuridica internazionale. Secondo il Perassi sarebbero «organi di funzioni» soltanto degli enti non soggetti e in particolare degli enti diversi sia dagli Stati, sia dagli altri enti elementari, sia da quelle che il Perassi stesso considera le istituzioni corrispondenti alle unioni Secondo il nostro modo di vedere, invece – che ci sembra del resto più conforme alla concezione della soggettività come titolarità specifica di diritti o doveri determinati anziché idoneità generica ad esser titolare di un numero indefinito di situazioni soggettive -, l’ente in funzione di organo internazionale potrebbe essere elevato – in certi casi ed a certi effetti – anche al rango di soggetto, ferma restando la sua qualità di mero organo di funzioni agli effetti dell’accordo che lo istituisce e che obbliga gli Stati ad attenersi alle sue determinazioni.

La teoria del Perassi, insomma, va corretta nel senso che gli enti in funzione di organi internazionali non agiscono come soggetti… nell’esercizio delle loro «funzioni», ma possono anche presentarsi come dei soggetti ad effetti diversi. Fenomeno non dissimile, a nostro avviso, da quello che si produce in diritto interno quando un individuo-soggetto presta la sua opera ai contraenti nell’arbitrato libero o nell’arbitramento. Il potere giuridico specifico non sussiste, quantunque sussista la soggettività. ad altri effetti, fino a quando una norma eteronoma non assuma il compromesso e la pronuncia a. fattispecie giuridica di effetti assoluti[209].

Resta.ancora chiarito, per un altro verso, se non erriamo, che l’esistenza dell’ente reale e l’acquisto da parte di esso di una maggiore consistenza non importano l’esistenza d’una istituzione internazionale più di quanto il conferimento d’una funzione arbitrale ad uno Stato da parte di due altre potenze importerebbe la trasformazione dello Stato-arbitro in istituzione. La differenza fra i due casi sta solo nel fatto che il meccanismo d’unione è costituito in adempimento di un trattato. Ma anche gli Stati nascono alle volte in attuazione d’un trattato. Nell’uno come nell’altro caso, quindi, il fenomeno istituzionale internazionale può trovarsi realizzato solo nei processi e nelle situazioni di egemonia[210].

33. – È ovvio ormai che i soli eventuali fenomeni di organizzazione in senso proprio della comunità giuridica internazionale sarebbero semmai costituiti – posto che vi si possano ravvisare gli estremi della giuridicità – da quei processi per cui certe potenze si trovano ad assumere una posizione direttiva nei confronti di altre, e che vengono spesso, e non del tutto propriamente, riavvicinati alle situazioni di privilegio fatte dagli statuti di certe unioni a determinati Stati in considerazione della loro preminenza politica, sia nella composizione dei meccanismi considerati, sia nei sistemi di votazione. Tra i fenomeni del genere vengono comunemente annoverati, come è noto, il «Concerto» europeo dalla fine delle guerre napoleoniche alla fine del secolo scorso, la prevalenza delle Grandi Potenze nel periodo fra le due ultime guerre mondiali, e l’attuale predominio delle due, tre o cinque massime potenze[211].

Data la posizione di preminenza di una o più potenze sulle` altre o su loro gruppi, si riscontrerebbero in un certo senso i n questi fenomeni gli estremi dell’«organizzazione» e del fenomeno istituzionale. Ed in questo senso potrebbero essere eventualmente accettabili, se non fossero confuse, invece, insieme con il fenomeno unionistico, entro il concetto assurdo di «governo mondiale», le idee di certi autori sul «direttorio» delle grandi o delle «super-potenze»[212] e le prudentissime recenti concessioni del Carnelutti in tema di organizzazione internazionale[213]. L’attività direttiva esercitata dalla potenza o dalle potenze egemoni si potrebbe infatti assimilare, in certi casi, sia pure con molta buona volontà, alla figura del «provvedimento»in senso lato e del diritto autoritario, il cui difetto costituisce una delle ragioni che ci hanno portati ad escludere l’esistenza di un fenomeno istituzionale nella costituzione e nel funzionamento dei meccanismi unionistici considerati[214].

Va tuttavia notato, prima di considerare il rapporto di tali processi con i fenomeni unionistici, che i fenomeni egemonici presentano per lo più caratteristiche tali – soprattutto a causa della struttura paritaria dell’ordinamento e della natura composta degli enti tra i quali si costituirebbero gli eventuali rapporti «gerarchici» internazionali -, che nono solo è da escludere che essi importino modifiche profonde nell’ordinamento che non si traducano nella formazione di aggregati statuali più ampi attraverso processi di assorbimento o fusione[215], ma sarebbe estremamente difficile individuarne gli eventuali «termini giuridici». I casi più frequenti saranno quelli in cui i rapporti fra potenza egemone e potenze «suddite» si manterranno sul piano politico generale, sfuggendo ad ogni definizione giuridica e lasciando praticamente intatto il sistema formale paritario. Sistema che i giuristi generalmente non considerano scosso nemmeno dai rapporti di supremazia che si traducano in relazioni contrattuali di alleanza ineguale o di protettorato. Queste.stesse relazioni, infatti, che dovrebbero costituire la sanzione formale contrattuale della eventuale situazione di supremazia e subordinazione «istituzionale», vengono ricondotte presso che unanimamente dagli internazionalisti a delle mere limitazioni volontarie della propria attività da parte della potenza o delle potenze «suddite», piuttosto che a quelle limitazioni di «capacità» giuridica che dovrebbero segnare l’inizio d’un processo istituzionale. E questo senza contare la probabile antigiuridicità di qualsiasi fenomeno di supremazia nell’ambito della comunità paritaria. Non appena si verificasse, poi, una tale intensificazione ed estensione della supremazia da giustificare una qualificazione diversa del fenomeno, questo trascenderebbe automaticamente il piano dei rapporti internazionalistici per spostarsi su quello dei rapporti costituzionali interni entro una comunità interindividuale costituita dalla fusione più o meno ineguale fra le due o più potenze in questione. Non è dunque azzardato, forse, ritenere che i rapporti giuridici d’ordine internazionalistico in senso proprio restino in ultima analisi sempre e soltanto quelli paritari.

Quanto al rapporto fra i processi egemonici ed il fenomeno unionistico, poi, va soprattutto osservato, a chiarimento ulteriore: del secondo, che è estremamente pericoloso e certamente improprio confondere l’attività direttiva che certe potenze svolgano singolarmente o in concerto fra loro sul piano del diritto internazionale comune o sul piano meramente storico-politico – e spesso indipendentemente dalla costituzione di qualsiasi unione volontaria a carattere regionale o universalistico -, con la posizione che alle stesse potenze – o meglio ai loro delegati – venga fatta in seno ai meccanismi dell’unione regionale o universalistica[216]. E sarebbe altrettanto improprio confondere il meccanismo del quale due o più potenze preminenti si servissero, .nello svolgere in concerto la funzione direttiva assuntasi, con il fenomeno di organizzazione che deriva dalla loro preminenza e dall’esercizio della funzione direttiva stessa. È diffusissima, p. es., l’idea che l’elemento organizzativo-istituzionale delle Nazioni Unite sia costituito dalla preminenza o dal «direttorio» delle quattro, tre o due massime potenze. E si legge spesso che le «organizzazioni internazionali» del tipo della Società delle Nazioni .e delle Nazioni Unite trovano i loro «precedenti storici» nel «Concerto europeo» e nella Santa Alleanza, e nelle conferenze internazionali attraverso le quali queste forme di «concerto» si sono attuate[217]. Idee, queste, tanto più pericolose, in quanto possono creare l’impressione che il fenomeno egemonico e quello unionistico vengano in certo modo ad integrarsi vicendevolmente, nel senso che il direttorio delle potenze presti all’unione la consistenza «istituzionale» che il contratto non è idoneo a conferirle, mentre lo statuto unionistico e l’organizzazione in cui il primo si concreta conferirebbero alla supremazia delle potenze quella veste formale che si è visto essere difficilmente individuabile come fenomeno giuridico nell’ambito del sistema internazionalistico.

Senonché, nel primo caso non ci si avvede che il peso maggiore delle grandi potenze in seno al meccanismo (leggi «organo di funzioni»), pur essendo il portato della preminenza «istituzionale» delle potenze stesse, importa soltanto un maggiore concorso di queste nella formazione delle determinazioni che in seno al meccanismo vengono a prodursi, ma non muta affatto il carattere e il valore delle determinazioni, che restano meri elementi integrativi di rapporti obbligatori sostanzialmente paritari fra gli Stati «membri» dell’unione. Ché se ad un certo punto le potenze o il loro concerto riescono a imporre ad uno Stato membro una determinazione che esse abbiano interesse a vedere attuata, non per questo la determinazione in sè e per sè viene ad acquistare la portata di «provvedimento» che le manca. L’azione autoritaria, in altri termini, si svolge al di fuori dell’unione[218].

Nel secondo caso, poi, si confonde addirittura l’azione autoritaria o il provvedimento che il concerto delle potenze pone in essere in virtù della sua preminenza politica o giuridica sulle potenze minori, con il meccanismo – generalmente una conferenza funzionante sulla base dell’unanimità o un mezzo analogo di «concertamento» – mediante il quale le potenze direttive si accordano sull’azione da intraprendere. Si confonde cioè il rapporto istituzionale-gerarchico fra il «concerto» e le varie potenze che ne subiscono l’azione con il meccanismo fungibile di cui le potenze in «concerto» si servono nei loro rapporti, ed al quale sono estranei sia le potenze che ne subiscono l’azione, sia il rapporto fra queste stesse potenze e le prime. Considerazioni che chiariscono per altro verso l’assenza d’ogni elemento pubblicistico-istituzionale-internazionalistico nelle .unioni e l’importanza di distinguere lo statuto dell’unione come accordo paritario da quegli ordinamenti parziali veri e propri che sono gli statuti delle persone giuridiche private e pubbliche del diritto interno[219].

§ II. – I meccanismi delle unioni

e l’evoluzione dell’istituzione interindividuale

Sommario: 34. L’elemento istituzionale-interindividuale dell’anione («organo di funzioni») come eventuale embrione dell’organizzazione dei popoli degli Stati contraenti. Difficoltà di riconoscere un fenomeno del genere nei meccanismi corrispondenti alle Nazioni Unite ed alla maggior parte delle unioni regionali (e negl’«istituti specializzati»).

34. – Vi è tuttavia una caratteristica delle c.d. unioni organiche che in un certo senso attenua – sia pure in misura minima e in senso decisamente extra-internazionalistico – il giudizio negativo che se n’è dato in quanto pretesi fenomeni di organizzazione internazionale. Questa caratteristica – certamente non riscontrabile nei fenomeni privatistici interni cui si accennava – è costituita dal fatto evidente che i meccanismi previsti dai «contratti d’organizzazione» di diritto internazionale possono .acquistare una forza ed un valore giuridico proprio, in un certo senso originario rispetto all’ordinamento internazionale, e che ha determinato in certi casi e potrebbe eventualmente determinare in futuro un superamento parziale o totale del sistema paritario. Possibilità che deriva dalla circostanza che i meccanismi in questione corrispondono nella maggior parte dei casi – e specialmente nelle unioni confederali regionali – a promesse o embrioni più o meno vitali d’istituzioni interindividuali incerte. e future, ma certamente organizzate, ed abbraccianti virtualmente l’intero ambito personale degli Stati rispetto ai quali i meccanismi stessi funzionano. È questo, a nostro avviso, l’aspetto delle unioni che va studiato più a fondo ai fini «riformistici», sia in se stesso, sia nel suo rapporto con il fenomeno strettamente internazionalistico del patto obbligatorio e dell’«organo di funzioni».

Non è necessario spendere molte parole per dimostrare che i meccanismi delle unioni che abbiamo definiti come organi di funzioni son caratterizzati tutti, salvo il caso che l’intero meccanismo s’identifichi con un solo individuo, da un ordinamento giuridico più o meno complesso che ne regola il funzionamento interno, nei vari. rapporti interindividuali e «intercollegiali» che inevitabilmente vi si intrecciano. I regolamenti di procedura dei tribunali e delle Corti arbitrali o «giurisdizionali», le norme che ne organizzano le cancellerie, i regolamenti delle Conferenze delle assemblee e dei consigli ed i regolamenti relativi all’organizzazione dei segretariati ed. ai rapporti d’impiego dei funzionari, costituiscono tutta una gamma di organizzazioni gerarchiche più o meno complesse – attuazione più o meno diretta degli accordi «costitutivi» – e altrettante manifestazioni del fenomeno dell’organizzazione giuridica nell’ambito dei meccanismi delle unioni. I monisti, naturalmente, li considerano senz’altro come ordinamenti e regolamenti derivanti dall’accordo d’unione o dallo statuto, allo stesso modo come son derivati dagli atti costitutivi i regolamenti degli organi collegiali degli Stati e delle persone giuridiche private e pubbliche del diritto interno. La dottrina dualista tende invece a costruirli più realisticamente, nonostante le contraddizioni in cui cade nella teoria generale del fenomeno unionistico, come ordinamenti a sè stanti[220], che trovano la loro legittimazione in qualcosa di diverso dallo «statuto» interstatuale e precisamente, diremmo noi, nell’adempimento da parte degli Stati delle obbligazioni assunte in ordine alla costituzione dei meccanismi unionistici, e nell’esistenza che ne consegue di gruppi d’individui funzionari o delegati: perché dei rapporti e dei sistemi di lavoro in comune di questi individui lo «statuto» non si occupa, se non eventualmente nel senso di costituire fra gli Stati gli obblighi necessari per ottenere ch’essi dispongano in fatto le cose in un certo modo, o per stabilire che in tanto una Stato sarà tenuto a conformare la propria condotta alle determinazioni prodottesi in seno ad un collegio, in quanto il collegio abbia votato in un certo modo. Si tratta dunque di ordinamenti interindividuali distinti da quello che regola i rapporti paritari fra gli Stati membri e comunque dotati di caratteristiche completamente diverse – specie per quanto ha tratto al fenomeno della gerarchia e dell’organizzazione – dall’ordinamento giuridico internazionale. E quel che conta, in fondo – più che il fatto della separazione nell’origine -, è proprio questo.

Se ora si considerano, nella vasta. gamma delle unioni c.d. «organiche», le unioni regionali o universalistiche a scopi generali, è facile rilevare che i meccanismi-ordinamenti in questione presentano un grado variabile di complessità e di stabilità man mano che dalle unioni meno organizzate si passa a quelle più organizzate e vitali e man mano che dalle unioni universalistiche si passa a quelle che operano in cerchie più ristrette di Stati legati da vincoli più duraturi, fino a trovare il massimo sviluppo nelle confederazioni in via di evoluzione verso forme federalistiche. E non ci vuol molto ad accorgersi che, a parte i meccanismi-ordinamenti corrispondenti alle unioni speciali o specializzate, che costituiscono evidentemente un problema secondario, i meccanismi-ordinamenti corrispondenti alle unioni a scopi e funzioni generali o politici rientrano tutti quanti nel medesimo «genus» delle diete e dei congressi confederali, salvo a differire eventualmente in misura enorme in certi casi gli uni rispetto agli altri per grado di complessità, di accentramento e, se si vuole, di «perfezione». Nè ci vuol molto a rilevare che, se le forme confederali in fase di accentramento più o meno avanzato corrispondono agli stadi embrionali di istituzioni interindividuali più accentrate, quali lo Stato federale e lo stesso Stato unitario, le forme confederali decentratissime, le unioni regionali appena organizzate e le unioni universalistiche tipo Società delle Nazioni e Nazioni Unite non sono in ultima analisi che i «possibili», «eventuali» embrioni di stati federali regionali o dello Stato federale universale. E una volta costatata quest’ovvia analogia, è evidente che valga per queste unioni più decentrate o in fase addirittura pre-embrionale quel che si è visto valere nel caso dell’unione nordamericana e delle confederazioni che al pari di questa son passate ad un certo punto in fase federalista. Il solo modo, dunque, di dare un giudizio sull’efficienza e le possibilità di sviluppo di questi organismi e dei mezzi migliori per assicurarlo è di tener presenti le caratteristiche e la funzione svolta dai meccanismi analoghi nelle unioni che hanno avuto successo.

È evidente, innanzi tutto, che anche nel caso delle unioni più lontane dalla fase costituzionalistica (le unioni più strettamente internazionalistiche) non si tratta di organizzare società o associazioni oppure eventualmente organi comuni fra Stati, ma di organizzare o costituire le premesse per organizzare società d’individui. Non si tratta, cioè, tanto o soltanto di ottenere la stipulazione di patti fra gli Stati, per quanto stretti possano esserne i vincoli e per quanto ampie siano le «funzioni» conferite agli «organi» confederali, quanto di organizzare l’ordinamento o l’istituzione interindividuale che ad un certo punto si sostituisca al patto esautorandone la funzione[221]. Il che non esclude, beninteso, la funzione positiva svolta dal patto.

Nel caso delle unioni a tendenza universalistica si tratta nientemeno di organizzare l’ordinamento o l’istituzione interindividuale dell’umanità, il cui sviluppo porti all’annullamento dell’intero diritto internazionale convenzionale e consuetudinario. Ed anche in questo caso, come in quello che abbiamo esaminato sopra più da vicino, solo quando tale processo sarà iniziato si potrà cominciare – dico «cominciare» – a parlare di poteri dell’Assemblea o del Consiglio, di funzioni di governo di questi organi, di loro «poteri» sugli Stati e sugli individui, di attività degli organi dell’unione o dell’unione stessa e di diritti ed obblighi dell’unione come corporazione. Solo allora, insomma, si potrà parlare di governo internazionale, di funzioni internazionali e via dicendo. Parlare oggi di queste cose, sia pure con tutte le riserve possibili ed immaginabili sull’efficienza degli organismi costituiti e sulla proprietà dei termini adoperati, è inesatto dal punto di vista tecnico e molto pericoloso dal punto di vista politico. Le stesse parole a organizzazione internazionale» dovrebbero essere sempre usate col maggior numero di virgolette possibile.

Il problema del potenziamento delle unioni non sta tanto nell’abolizione del veto o nell’estensione del principio della maggioranza, non sta nell’aumento dei poteri delle assemblee rispetto ai consigli, non sta nell’eliminare le disuguaglianze fra grandi e piccole potenze, non sta nell’ampliamento della possibilità di azione dell’«organizzazione» nel campo della sicurezza mediante la creazione di forze armate alle dipendenze dell’ente[222]. Il risultato da raggiungere, a ben guardare, sta sul piano interindividuale – e non vediamo che cosa ci sia di male a prospettarselo come un problema attuale visto che tanta parte della dottrina fa le cose così facili -, e sarebbe nientemeno ,che la penetrazione di un collegio come l’Assemblea delle Nazioni Unite o il Consiglio o l’Assemblea dell’«organizzazione» europea entro le compagini nazionali dei vari Stati per dare inizio allo sviluppo dell’istituzione interindividuale attraverso la graduale trasformazione dell’Assemblea di delegati in organo direttivo della comunità interindividuale costituita almeno da certi strati delle popolazioni dei vari paesi. Si deve arrivare, in altri termini, al punto in cui le élites o le maggioranze portino i loro Stati a Lake Success o a Strasburgo almeno un po’ come le élites degli Stati dell’Unione americana hanno portato i loro a Filadelfia. Occorre che gli ambienti di Lake Success e di Strasburgo, tanto per intenderci, oggi costituiti di diplomatici e di funzionari di segretariato, si trasformino nell’Assemblea dei «Fathers of the Constitution». E le differenze che sussistono tra i meccanismi quali le unioni internazionali regionali e universali ed un’unione come quella americana nel «periodo critico» sono tali e tante che sarebbe veramente avventato considerare, sia pure sotto questo profilo, la maggior parte delle unioni regionali e quella europea in ispecie, o l’organizzazione delle Nazioni Unite, come embrioni «vivi e vitali» d’istituzioni interindividuali.

Per quanto riguarda le unioni regionali, la differenza sarà più o meno grande a seconda dei fattori positivi o negativi di federazione che sussistono nella comunità degli Stati in unione in ogni singolo caso. Fattori in gran parte intuitivi e noti e soprattutto facilmente individuabili, singolarmente e nelle loro infinite combinazioni, attraverso il confronto con i fattori positivi o negativi che operavano nel caso dell’unione ricordata o di altre unioni affini.

Quanto alle unioni a tendenza universalistica tipo SdN e Nazioni Unite, la distanza che le divide dal fenomeno storico ricordato è addirittura incalcolabile. Se nei due Congressi ricordati delle ex-colonie americane i contemporanei lungimiranti avrebbero ben potuto scorgere l’embrione dell’istituzione unitaria avvenire, che poteva essere profetizzata sulla base dell’interesse particolare che univa le ex-colonie di fronte alla madrepatria e ad altri Stati, delle affinità di origine e di vicende, della contiguità territoriale e di tanti altri fattori ideali e materiali, il contemporaneo delle Nazioni Unite difficilmente può considerare vitale nello stesso senso – sia pure in misura infinitamente minore – un organismo costituito di delegati di Stati e che dovrebbe percorrere lo stesso iter di quei Congressi nell’ambito di una società universale di gruppi chiusi e per lo più geograficamente discontinui, materialmente e idealmente tanto più divisi e soprattutto non uniti da interessi comuni da difendere verso un «esterno».

La differenza che forse colpisce maggiormente, sia nelle unioni regionali sia in quelle universalistiche, è costituita dalla circostanza – determinata, a sua volta, dall’azione combinata di tutti i fattori di «decentramento» esistenti – che in entrambi i casi i c.d. «organi» dell’unione son costituiti di delegati di Stati nel senso più stretto del termine, ossia di delegati nominati dagli esecutivi. In nessun caso ci si trova in presenza di delegati nominati dalle Assemblee legislative e tanto meno di città o provincie, come s’è visto essere accaduto nella Confederazione americana, ed in nessun caso è dato rinvenire nelle unioni in questione (e specialmente in quella a tendenza universalistica oggi esistente) le premesse indispensabili per determinare lo sviluppo auspicato attraverso la pressione combinata d’una cerchia più o meno ampia d’individui sui governi e sugl’individui dei vari Stati, che sia lontanamente paragonabile alle situazioni del genere riscontrabili nella maggior parte delle unioni confederali in fase di «accentramento». E va anche notato, con speciale riguardo alla Società delle Nazioni e alle Nazioni Unite, che qualunque unione regionale si trova da questo punto di vista in condizioni infinitamente più favorevoli dell’unione universalistica. Solo il maggior fascino del risultato ed il maggiore interesse suscitato nel pubblico dalla riunione dei delegati di quasi tutti gli Stati per discutere i più importanti problemi internazionali del momento conferisce un’apparente maggiore consistenza ed importanza alle unioni politiche universalistiche[223]. Ma il confronto porta alla conclusione diametralmente opposta se si considera la proporzione o il grado di sproporzione tra. i mezzi e i sistemi attuati o immediatamente attuabili in ciascun caso ed i diversi risultati che le unioni dovrebbero rispettivamente realizzare perché si potesse parlare di un’organizzazione corrispondente all’ambito «personale» d’azione loro assegnato[224].

Tutto porta a ritenere, quindi, che dell’istituzione non c’è .quasi la minima traccia nella maggior parte delle unioni in questione nemmeno dal punto di vista interindividuale[225]. Nella maggior parte dei casi, i meccanismi interindividuali in questione non si trovano collegati quasi. per nulla con gl’individui membri-sudditi dei vari Stati in unione. Essi vivono solo a titolo del tutto precario, in funzione esclusiva di strumenti del patto di unione, e non sopravvivono alla eventuale cessazione dell’unione stessa che sotto forma d’un numero più o meno considerevole di funzionari in cerca d’un impiego altrettanto ben retribuito nel meccanismo di altre unioni similari o dell’unione futura, o nelle cancellerie dei singoli paesi. Funzionari che non son certo animati da uno spirito riformistico lontanamente assimilabile a .quello dei «padri» delle costituzioni federali e non trovano certo un incoraggiamento in questo senso nei delegati-diplomatici alle Assemblee ed ai Consigli[226].

§ III. – Il rapporto tra il fenomeno contrattuale-unionistico

e l’istituzione interindividuale e il problema

del superamento del sistema paritario interstatuale

Sommario: 35. Il rapporto tra il fenomeno unionistico dell’«organo di funzioni» e l’organizzazione interindividuale. – 36. Il federalismo come via di superamento del sistema paritario interstatuale e la funzione secondaria e strumentale dei movimenti unionisti, societaristi, pacifisti e funzionalisti. Impostazione politica errata del problema de lege ferenda nei paesi occidentali.

35. – A parte i processi egemonici, dunque, nell’«organizzazione internazionale» c’è da un lato un fenomeno grande e grosso di natura contrattuale – privatistica e preistituzionale -: il patto ugualitario fra Stati. Fenomeno grande e grosso per la mole degli enti soggetti e degl’interessi in gioco, ma non per il suo «valore» giuridico. Dall’altro lato c’è un fenomeno piccolissimo – diremmo microscopico al confronto con l’altro e con il fenomeno istituzionale interindividuale che si vorrebbe ci fosse – di carattere pubblicistico-istituzionale: l’organizzazione o il meccanismo dell’unione. Il primo fenomeno è di carattere, diciamo così, permanentemente precario – per la precarietà del patto stesso e della buona volontà delle potenze -, ed eventualmente decrescente sotto la spinta del secondo, specie nelle unioni regionali in fase confederale[227]. Il secondo è eventualmente crescente, ma nella maggior parte dei casi – e specie nelle unioni universalistiche – è anch’esso precario, perché legato solo al patto e destinato eventualmente a scomparire con esso[228].

I monisti e gli autori dualisti che li seguono per la stessa strada hanno il torto d’interpretare pubblicisticamente il primo fenomeno sulla base del secondo, componendo così un edificio unico nel quale si trovano sommate, per così dire, le proporzioni mastodontiche del primo e la natura pubblicistica del secondo: ibrida costruzione scientifica, il cui risultato è appunto l’idea che il Patto della SdN o lo Statuto delle NU sia la «costituzione dell’umanità» o la costituzione «volontaria» dell’umanità in contrapposto alla costituzione non scritta o spontanea più imperfetta. Per noi, invece, non si trova realizzata nè l’organizzazione degli Stati nè quella degl’individui. L’organizzazione come fenomeno giuridico non esiste, oppure esiste soltanto nel secondo fenomeno – quello interindividuale – ed allo stato così latente ed embrionale che è meglio far conto che non ci sia affatto.

Con ciò non si contesta nè l’utilità relativa dei meccanismi istituiti, nè che essi costituiscano delle promesse più o meno attendibili di sviluppi avvenire. E nemmeno si nega, come i monisti sembrano credere, che uno sforzo per il superamento di questo stato di cose sia indispensabile. Si nega soltanto – e si crede di far con questo opera molto più utile di quella dei monisti – che il superamento sia in corso come fenomeno giuridico attuale o sia a portata di mano, e si nega soprattutto che per raggiungerlo basti operare sul piano dei rapporti interstatuali, aspettando che una nuova guerra crei momentaneamente intorno alle cancellerie un ambiente favorevole alla stipulazione di nuovi accordi-«statuti» più soddisfacenti e che prendano il posto di quelli costituiti alla fine della guerra precedente. Il cammino da percorrere è molto più lungo di quanto non sembri alla maggioranza degl’internazionalisti. Si concorda in questo con il giudizio dei cultori d’altre materie, dei politici e dei laici d’ogni paese, che per lo più non avvertono l’esistenza di nessuna forma di governo internazionale (anche se non sentono, spesso in modo vivo e cosciente, nemmeno l’urgenza del superamento avvertita dagli spiriti più illuminati). Le difficoltà da superare sono tali e tante che allo stato attuale d.elle cose appare molto più probabile che al governo mondiale si arrivi attraverso la costituzione d’un impero universale da parte d’una potenza, che non attraverso l’organizzazione volontaria e «democratica» fra gli Statu o i popoli. E non è il caso, evidentemente, di stare a dilungarci sulle ragioni di questo giudizio pessimistico, che sono ovvie e comunque non interessano dal punto di vista giuridico dal quale ci poniamo. Al giurista basta da un lato valutare i dati forniti dalla realtà per render conto dei fenomeni attuali, e dall’altro confrontare mezzi e fini per giudicare della misura in cui i primi son proporzionati ai secondi. E il risultato non è incoraggiante nè dal primo nè dal secondo punto di vista.

36. – Quanto all’atteggiamento che conviene tenere nei confronti dei fenomeni discussi a chiunque sia convinto dell’insufficienza del sistema attuale e si ponga seriamente un problema di scelta e di azione politica, le considerazioni svolte dimostrano. che la linea politica essenziale, a parte gli adattamenti e le attenuazioni che si rivelino necessari a seconda delle circostanze, è quella federalista e soltanto quella federalista, sia sul piano mondiale sia su quello regionale. Tutti gli altri movimenti che mirano a dare un assetto migliore alla comunità internazionale hanno ragion d’essere solo in quanto confluiscano tutti nel movimento federalista ed operino nell’ambito di questo come aspetti e parti d’un solo programma. Le divergenze d’ordine teorico o pratico fra questi altri movimenti e quello federalista non sono e non possono essere tali da creare un conflitto fra federalismo e societarismo o internazionalismo o tra federalismo e funzionalismo, allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui i movimenti federalisti regionali non si trovano e non possono trovarsi in conflitto con i movimenti federalisti mondiali. Si tratta e deve trattarsi soltanto di diversità di opinioni e tendenze nella scelta dei modi e dei mezzi per raggiungere lo stesso risultato finale. Sempreché, beninteso, l’istanza federalista sia rettamente considerata come il problema di portare a confluire i due fenomeni del patto egualitario fra Stati (sul piano regionale o universale) e dello sviluppo dell’istituzione interindividuale, e non unilateralmente: nè come mero problema di patti d’unione fra Stati, nè come programma rivoluzionario da attuarsi attraverso una costituente dell’umanità o di sue parti riunita contro la volontà dei governi e indipendentemente dalla creazione nei vari paesi delle premesse indispensabili. Una volta inteso il federalismo in questo senso, il problema dei rapporti con gli altri programmi di «organizzazione internazionale» è un problema interno al federalismo e non un problema di scelta pro- od anti-federalista, a meno che gli altri movimenti (societari, internazionalisti cosmopoliti, funzionalistici, e via dicendo) non siano viziati, per una ragione o per l’altra, da incomprensione della loro funzione strumentale.

Il programma federalista, integrato da un’esatta percezione delle difficoltà di attuazione derivanti da tutti i possibili fattori che influiscono sul modo di essere della realtà umana (da quelli strettamente politici a quelli economico-sociali e ideali), e liberato soprattutto dal semplicistico contrattualismo giuridico, non è una delle vie di superamento del sistema, ma la sola via diversa da quelle imperialistiche più o meno abilmente mascherate da pacifismo e internazionalismo[229]. Soltanto la propaganda sovietica può avere interesse a predicare il contrario[230]. Il risultato da raggiungere sul piano universale o regionale – di qui a cent’anni o a mille che sia – è un ordinamento interindividuale abbastanza decentrato da utilizzare nel modo più conveniente le particolarità delle comunità nazionali eventualmente integrate. E l’ordinamento interindividuale decentrato in questo senso non può essere che un ordinamento federale. Il programma federalista s’identifica perciò con l’istanza stessa di superamento del sistema attuale, e non si può quindi contestare che si debba mirare alle costituenti regionali ed alla costituente mondiale, utilizzando tutti i mezzi idonei a promuoverle. Ed appunto come mezzi si presentano, se rettamente intesi e diretti, i programmi degli altri movimenti.

Il «societarismo», l’«unionismo» e l’«internazionalismo», che sono i movimenti sui quali si fondano le «unioni» universalistiche o regionali a carattere politico-generale tipo Società delle Nazioni, Nazioni Unite, organizzazione interamericana, Lega araba e via dicendo, hanno la funzione – essenziale per il programma federalista – di promuovere sostenere e perfezionare i patti di unione fra Stati che debbono fare da involucro protettivo all’istituzione interindividuale che si vuol veder sorgere, attenuando gli effetti politici, economici e sociali dell’anarchia interstatuale ed eventualmente riducendo i rischi di conflitto aperto attraverso l’opera di mediazione e buoni uffici svolta dai «meccanismi»descritti. Il cosmopolitismo politico-culturale ha la funzione non meno essenziale di attenuare i contrasti ideologici e nazionalistici. E il funzionalismo ha il compito di costruire dei. meccanismi che assecondino l’opera delle organizzazioni a scopi generali, promuovendo la collaborazione degli Stati nel campo economico, sociale, culturale e umanitario. Ma tutto questo sempre in quanto ciascuno di questi movimenti riconosca nell’attuazione delle proprie istanze dei passi più o meno grandi e sicuri verso mete federaliste ed accetti eventualmente le riduzioni e gli adattamenti che i programmi federalistici debbano subire. In quanto ciascun movimento, cioè, operi in ogni momento e circostanza come servo del federalismo. Ogni deviazione da questa funzione strumentale – e il deviazionismo, apparentemente inevitabile, supera di gran lunga il conformismo – rende sterile se non negativa ogni iniziativa, a danno dello stesso programma strumentale. Con il risultato che il movimento finisce per ridursi a un duplicato dei meccanismi intergovernativi esistenti, servendo eventualmente interessi nazionalisti o imperialisti.

La migliore riprova della sterilità dei movimenti funzionalistici o strettamente internazionalistici disgiunti dal federalismo è il fatto ch’essi godono del massimo appoggio dell’Unione sovietica, della quale è notoria l’avversione (insieme con gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza) a qualsiasi miglioramento dello statuto unionistico, ed il cui evidente interesse. com’è dimostrato dai lavori delle Nazioni Unite, sta proprio nel legare il mondo occidentale in una unione internazionalistica che non s’immischi negli affari interni degli Stati, per potere svolgere più sicuramente il suo piano di unione mondiale sotto bandiera cominformista agendo per «vie interne». Ciò il mondo occidentale non sembra intendere, nè in seno alle Nazioni Unite, nè in seno ai movimenti che ne sostengono l’azione. Invece di far tesoro della lezione impartitagli dall’altra parte, organizzandosi federalmente almeno sul piano regionale all’ombra del patto egualitario, esso tenta invano di forzare il sistema internazionalistico paritario a mo’ di costituzione, dando così un ottimo incentivo alla propaganda dell’avversario. Nel che è evidentemente mal consigliato dai suoi stessi esperti legali.

INDICE DEGLI AUTORI

Accioly,

Ago,

Anzilotti,

Arangio-Ruiz,

Baldoni,

Balladore Pallieri,

Barassi,

Barbero,

Betti,

Biscaretti di Ruffia,

Biscottini,

Bobbio,

Bolaffi,

Borchard,

Bosco,

Breschi,

Brierly,

Campagnolo,

Cariota Ferrara,

Carnelutti,

Carson,

Chiovenda,

De Sotto,

Donati, D.,

Eagleton,

Fedozzi,

Fenwick,

Ferrara,

Fiske,

Florio,

Fusinato,

Giuliano,

Grosso,

Guarino,

Gueli,

Guggenheim,

Hockett,

Horneffer,

Kelsen,

Kopelmanas,

Krylow,

Kunz,

Laband,

Marinoni,

Messineo,

Monaco,

Morelli,

Nippold,

Ogg,

Orestano,

Ottolenghi,

Perassi,

Pilotti,

Quadri,

Ray,

Redenti,

Romano, Santi,

Ross,

Salamon,

Salvioli,

Santoro Passarelli,

Savigny,

Scelle,

Scerni,

Smali,

Sperduti,

Stolfi,

Triepel,

Udina,

Verdross,

Vishinsky,

Wheaton,

Zanobini,

Ziccard,

Zimmern,

  1. Il rapporto fra il monismo giuridico e la concezione pubblicistica del diritto internazionale non è di solito avvertito dalla dottrina dualista. Vedi peraltro la nota 5, p. 6, e gli autori ivi citati.
  2. Ci asteniamo da citazioni, perché si tratta di dottrine largamente note agl’internazionalisti. Il fatto che delle concezioni analoghe siano sostenute anche da autori dualisti non toglie che esse siano tipiche delle scuole moniste vecchie e nuove.
  3. V. P. eS., Verdross, Die Verfassung der Völkerrechtsgemeinschaft, Vienna, 1926, p. 7; Kunz, Die Staatenverbindungen, nello Handbuch di Stier Somlo, II, Stoccarda, 1929, p. 4, 11 ss., 268 ss.
  4. V. p. es., Guggenheim, Realtà e ideologia nell’organizzazione internazionale, ne La Comunità internazionale, Roma, II (1947), p. 163 ss., 332 ss., passim; Verdross, Le Nazioni Unite e i terzi Stati, nella stessa rivista, II (1947), p. 439 ss., spec. 440; Kelsen, The Law of the United Nations, Londra, 1950. passim.
  5. È questa una conseguenza che la dottrina dualista non sembra generalmente disposta a trarre dall’idea che l’ordinamento internazionale regola solo rapporti paritari fra gli Stati come formazioni storico-sociali e non rapporti infraistituzionali tra Stati intesi come ordinamenti o comunità parziali. I soli autori che mostrino una certa sensibilità per questo problema sono il Carnelutti, che è peraltro un negatore della giuridicità dell’ordinamento, ed il Quadri, Dir. internaz. pubbl., 1949, p. 52 s., il quale arriva però a negare persino l’esistenza di una costituzione in senso materiale della comunità internazionale (p. 53).

    La ragione del mancato rilievo di questo aspetto della concezione dualista sta nella nozione pubblicistica dominante degli enti soggetti dell’ordinamento internazionale che è rimasta ferma nonostante le indagini dello stesso Quadri, ed al riesame della quale abbiamo dedicato un lavoro (Gli enti soggetti dell’ordinamento internazionale, Giuffrè, Milano, passim).

  6. Gl’individui sono stati o sono eventualmente soggetti solo in quanto «potentati» individuali.
  7. Gli autori più vicini a questa posizione negativa sono il Morelli, Nozioni di dir. internaz., 2a, Padova, 1947, p. 157 ss.; lo Ziccardi, La costituzione dell’ordinamento internazionale, Milano, p. 364 ss., e Federalismo, societarismo e regionalismo nel1a società internazionale, ne La Comunità internazionale, IV (1949), p. 59 ss., spec. 67 ss.; e il Giuliano, La comunità internazionale e il diritto, Podova; 1950, p. 252-54, 317 ss.

    Lo stesso dovrebbe dirsi dell’Ago L’organizzazione internazionale dalla Società delle Nazioni aIle Nazioni Unite, La Comunità internaz. cit., I, (1946), se non fosse per lo scritto cit. alla nota 9.

  8. V. i riferimenti infra, nota 62, p. 41 s.
  9. V., da ultimi, Perassi, Lezioni, I, ristampa 1942, p. 71 ss.; e L’ordinamento delle Nazioni Unite, Padova, 1950, passim; Ago, Comunità internazionale universale e comunità internaz. particolari, ne La Comunità internaz. cit., V (1950), p. 195 ss., passim.
  10. V. la nota 7, p. 7.
  11. Morelli, Op. cit., p. 165 ss.
  12. Morelli, Op. 1. cit.; Giuliano, La comunità internaz. ecc. cit., p. 253-54.
  13. Con la conseguenza che non si tratta di un centro dato d’imputazione giuridica, ma di una entità meramente legale, V. sul punto il nostro lavoro già citato, p. 48 ss., 79 ss.
  14. Ma v. le considerazioni del Ferrara, Trattato di dir civ., I Dottrine generali, Roma, 1921, p. 639 ss., con il quale concordiamo (salvo che sull’accentuazione dell’elemento del riconoscimento (p. 641 s.) anziché della legge, puramente e semplicemente).
  15. Sulla «novità» degli effetti come criterio distintivo dei fatti di produzione giuridica, v. Donati, D., I caratteri della legge in senso materiale, nella Riv. di dir. pubbl., 1910, I, p. 306 ss. La teoria è del Laband, cit. dal D., p. 307, nota 1.
  16. V. per tutti, da ultimo, Cariota Ferrara, Il negozio giuridico, Napoli. 1945, p. 54 ss., spec. 108.
  17. Lo riconosce, fra gl’internazionalisti, il Morelli, Nozioni, cit., p. 106. L’equivoco comune è determinato dalla tendenza a scambiare lo sdoppiamento concettuale del diritto «soggettivo» e del rapporto giuridico dal diritto «obbiettivo» con una duplicità insussistente del fenomeno reale.
  18. V. gli esempi dati più avanti. Applichiamo la distinzione del Carnelutti fra comando materiale e strumentale (Teoria generale, 1946, p. 41 s.), e teniamo presenti i rilievi del Romano, Frammenti di un diz. giuridico, p. 3 ss.
  19. Ossia il proprio funzionamento. Il termine «effetti» induce appunto a quello sdoppiamento fra norma e rapporto giuridico, che determina l’equivoco intorno alla funzione del contratto produttivo di nuovo diritto.
  20. A parte il Betti, Teoria generale del negozio giuridico, vol. XV, t. II del Trattato del Vassalli, 1943, p. 37 ss., 42 ss., che attribuisce funzione normativa a tutti i negozi, gli autori che avvertono più chiaramente la funzione normativa del contratto sono il Carnelutti, Teoria generale cit., p. 51 ss.; ed il Romano, Frammenti cit., voce Atti e negozi giuridici, p. 8 ss. Teniamo a precisare, comunque, che a noi interessa, di questi autori, solo il riconoscimento della funzione normativa del contratto obbligatorio atipico. Per i negozi e gli atti «tipici» in genere è un’altra cosa.

    Il problema è toccato, di recente, negli scritti di Grosso. Il problema dell’autonomia privata attraverso l’esperienza viva degli ordinamenti romani, negli Scritti in onore di Carnelutti, vol. III, p. 1 ss.; e dello Zanobini, Autonomia pubblica e privata, negli stessi Scritti, vol. IV, p. 185 ss.

  21. Osserva infatti il Carnelutti, Teoria. del regolamento coll. dei rapporti di lavoro, Padova, 1930, p. 10-11, che «se il contratto fa nascere il rapporto non lo regola quasi mai (oserei dire: mai, senza quasi) tutto intero» (p. 16).
  22. Il fenomeno della costruzione legislativa di nuovi contratti nominati è particolarmente evidente nella disciplina data dall’attuale codice civile italiano al contratto estimatorio, alla somministrazione, all’affitto, al contratto di albergo, al contratta di agenzia, al deposito bancario ed a molte altre figure di negozi già posti in essere dai privati – salvo il caso dell’esistenza di usi e consuetudini – indipendentemente da norme di diritto obbiettivo che contemplassero determinati tipi di contratti o rapporti (Massineo, La dottrina gen. del contratto, 1948, p. 218 s.), e sulla base della norma strumentale che fa dell’accordo fra due o più soggetti un modo di costituire, modificare o estinguere obbligazioni. In questi casi, le norme cogenti contenenti la disciplina dei nuovi «tipi» contrattuali escludono evidentemente la funzione creatrice dei privati, riducendo più o meno totalmente l’atto dei privati stipulanti a condizione del loro funzionamento.
  23. Messineo, La dottrina gen. del contr. cit., p. 218-22.
  24. Sulla relatività delle unità corrispondenti ai singoli atti o tipi di atti giuridici (con particolare riguardo ai vari elementi del negozio giuridico}, V. Arangio-Ruiz, V., Istituz. di diritto romano, 10a ediz., p. 82.
  25. Non sembra tener conto di questa differenza il Barbero, Rilevanza della volontà nel negozio, in Studi in memoria di B. Scorza, 1940, p. 27, 29, 31, che attribuisce a tutti i negozi una funzione condizionante.
  26. A questo fenomeno alludono più o meno esplicitamente gli autori quando includono il contratto obbligatorio tra le fonti. Cicerone, Partitiones oratoriae, C. XXXVII, definisce il diritto pubblico come «lex, senatusconsultum, foedus»( quest’ultimo inteso come atto di «diritto pubblico esterno») e il diritto privato come «tabulae, pactum conventum, stipulatio»). L’art. 1372 cod. civ. it. (e l’art. 1123 del cod. 1866) afferma che il contratto fa «legge fra le parti ». La dottrina anglosassone parla di «subject-made law». E in questo senso si pronunciano il Romano e il Carnelutti nei ll. citati.
  27. Per il concetto di tipicità in questo senso, a parte i riferimenti nella nota 29, pag. seg., v. Barassi, La teoria generale delle obbl., 2a, 1948, II, 313; ma spec. Messineo, La dottr. gen. cit.,. 1948, p. 213-229; e Bolaffi, Scr. cit. nella nota cit., nonché La società semplice, Milano, 1947, p. 282.
  28. È superfluo osservare che la «tipicità» non deriva necessariamente dalla legge. Negozi o contratti tipici possono, al pari delle norme sul contratto atipico, trovarsi sanciti dalla consuetudine. Con questa non va confusa, peraltro – e ciò è importante per la costruzione di molti fenomeni di diritto internazionale -, la libera ripetizione uniforme di certi schemi da parte dei soggetti.
  29. Per la differenziazione fra gli elementi secondari, che non incidono sul tipo, e quelli essenziali, che determinano eventualmente sottotipi o il passaggio della figura negoziale entro un tipo diverso, v. Arangio-Ruiz, V., La cosiddetta tipicità della servitù e i poteri della giurisprudenza romana, Il Foro Italiano, vol. LIX, fasc. XI, p. 9-12 dell’estr.

    La questione agitata nello scritto citato è diversa dalla nostra. I romanisti discutono se in diritto romano classico i privati potessero costituire servitù per utilità o servizi diversi da quelli espressamente previsti dai tipi legislativi, e l’a. cit., sostenendo la tesi affermativa, parla di «atipicità», della servitù. «Tipicità»o «atipicità» in questo senso vuol dire dunque tassatività o meno delle figure di servitù espressamente previste – questione che si pone nel diritto moderno per la società (Bolaffi, Op. cit., p. 282) -, piuttosto che tipicità della servitù stessa come istituto, tipo di situazione giuridica, o categoria. I termini della disputa romanistica interessano tuttavia ugualmente, in quanto la tipicità nel primo senso non è che una specificazione – come ora si dirà – della tipicità alla quale ci riferiamo nel testo. Sul che non è del tutto chiaro il Bolaffi, Contratto tipico e tipi sociali, estr. dalla Giurisprudenza completa della C. S., Sez. Civ., vol. XXVIII (Istituto It. di Studi legislat.), 1949, p. 264.

  30. La tipicità relativa dei negozi costitutivi o modificativi di rapporti assoluti – di tutti i rapporti assoluti, come vedremo nei numeri che seguono – è collegata strettamente all’inidoneità del negozio-fonte a determinare l’esistenza di norme-rapporti assoluti. Che è il punto che massimamente ci preme di rilevare, agli effetti della teoria detta funzione e dei limiti dell’autonomia contrattuale in tema di organizzazione di persone giuridiche interne (e soprattutto internazionali).
  31. Sull’importanza della distinzione fra «autonomia» ed «eteronomia» per la teoria delle fonti, v. Carnelutti, Teoria generale cit., p. 51-53.
  32. Appunto in questo senso – cioè solo per il contratto obbligatorio atipico – è esatto affermare che i contratti sono una manifestazione di autonomia normativa (Betti), e che la regola dell’efficacia inter partes è assoluta (Santoro-Passarelli, Istituz., l946, p. 168 ss.). Pei contratti tipici e in genere per gli atti che realizzino fattispecie di norme materiali, si tratta di autonomia in senso meno pieno, e soprattutto possono esservi effetti per i terzi.

    La dottrina tradizionale si trova su questo terreno in difficoltà evidenti e deve ricorrere o alla distinzione tra effetti diretti inter partes ed effetti indiretti per i terzi, come fa il Santoro Passarelli, Op. cit., p. 170; oppure ad un concetto di «autonomia» contrattuale come «volontà sovrana» (Stolfi, G., Teoria del negozio giuridico, p. XV-XVI), stando al quale i terzi destinatari passivi delle norme sui diritti reali apparirebbero soggetti ad un potere normativo dei privati che stipulano una compravendita o costituiscono una servitù.

    Il solo modo di evitare queste contraddizioni è di riconoscere, come fanno il Carnelutti e il Romano, che c’è autonomia ed autonomia. L’autonomia nel creare un «nuovo regolamento» si trova soltanto nel contratto atipico o in quelle parti o aspetti di figure negoziali tipiche che funzionano come contratto atipico. Nei contratti tipici o nelle parti o aspetti di figure negoziali che ne realizzano gli estremi si esplica invece soltanto un’autonomia nell’attuare la condizione del funzionamento di norme materiali esistenti. Nel primo caso non vi sono effetti extra partes. Nel secondo possono ben esservene, e di qualunque specie. Il che potrà essere ovvio e irrilevante per la teoria del negozio giuridico interno a causa della compenetrazione fra le due figure, ma non lo è affatto, come si vedrà, per la teoria del negozio interstatuale.

  33. Alludiamo al passaggio dallo stadio del contratto atipico costitutivo dei rapporti meramente obbligatori che assolvevano la funzione oggi riservata all’«istituto» della società come contratto tipico (o meglio ai vari «istituti» corrispondenti ai vari tipi di società) ed all’«istituto» dell’arbitrato a carattere pubblicistico. Per la società, infra, p. 29
  34. Ciò non sembra avvertire l’Ottolenghi, Sulla personalità internazionale delle unioni di Stati, nella Riv. dir internaz., 1925, p. 318, testo e note 2 e 3, sulla scorta, pare, del Romano, Ordinamento giuridico, p. 72 ediz. 1917, e p. 65 ediz. 1945. Che il Romano abbia cambiato opinione risulta evidente, mi pare, dal concetto ristretto di negozio giuridico che professa in Frammenti cit., p. 9.
  35. Per l’evoluzione romanistica, v. Arangio-Ruiz, V., La società in diritto romano, Napoli, 1950.
  36. Una «iniziativa» di privati si può rinvenire, in una certa forma, anche nella costituzione di persone giuridiche pubbliche (si pensi all’azione svolta da privati interessati sui membri del governo o del Parlamento per ottenere i provvedimenti legislativi necessari per l’elevazione di una frazione a Comune). Ciò.non toglie che la costituzione dell’ente pubblico è determinata dal fatto di produzione giuridica che direttamente la istituisce.

    Una iniziativa di privati si può individuare del resto anche nella formazione degli Stati, e si riscontra, p. es., nella formazione delle costituzioni delle colonie dell’America.del Nord dichiaratesi indipendenti dalla Gran Bretagna. Che non si tratti di manifestazioni di «autonomia contrattuale» è tuttavia ben chiaro.

  37. Così, p. es., Ago, Comunità internazionale universale ecc. cit., passim.
  38. V., p. es., Romano, Corso di dir. internaz., 1933, p. 89 s.; Perassi, Lezioni cit., 1, p. 61 s. V. sul punto Infra, p. 51 s. e rinvio ivi.
  39. Balladore Pallieri, Dir. internaz. pubbl., 1948, p. 141-42 (spec. 142 in principio); e, meno sicuramente, Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 345, dl quale allude alle norme od ai criteri generali valevoli pei soggetti elementari.
  40. Derivano dall’accordo l’ordinamento o la soggettività o tutte e due le cose: Kelsen, Allgemeine Staatsiehre, 1925, p. 195 ss.; Id., General Theory of Law and State, 1946, spec. p. 319; Id., The Law of the United Nations cit., Prefaz., p. XVII, e p. 3, 4, 5, 9 (dove si parla della «international community established at the San Francisco Conference»), passim e 329-30; Verdross, Le Nazioni Unite e i terzi Stati, La Comunità internazionale, II (1947), p. 440 s., 448 (dove si parla di coesistenza di un «ordine» nuovo accanto al diritto internazionale comune e di coesistenza di «due costituzioni internazionali»); Scelle, Cours de droit international public, 1948, p. 58; Kunz, Die Staatenverbindungen, cit., p. 274 ss., 485 ss.; Guggenheim, Lehrbuch des Völkerrechts, 1948, p. 220 ss.; Kopelmanas, L’organisation des Nations Unies, 1, fasc. 1, Parigi, 1947, p. 165 ss., 191 e passim.
  41. Perassi, Lezioni cit., 1, 1942, p. 71-75; L’ordinamento delle Nazioni Unite, Padova, 1950, p. 9, 11-13 passim («ordinamento») e 22 ss. («soggettività»); Anzilotti (seconda maniera), Corso, I, 1922-23, p. 87; 1928, p. 143 s., 181 s., non così, però, ne Gli organi comuni delle società di Stati, cit. infra, p. 59 nota 92; Ottolenghi, Sulla personalità internaz. delle unioni di Stati, nella Rivista di dir. internaz., 1925, p. 313 ss., 461 ss.; Breschi, La Società delle Nazioni, 1928, p. 105 ss.; Baldoni, La Società delle Nazioni, 1936, p. 54 ss., 74 s., 77; Romano, Corso di dir. internaz., 1933, p 86 s., 99; Scerni, Saggio sulla natura giuridica delle norme emanate dagli organi creati con atti internazionali, Genova, 193, p. 9, 32; Fedozzi, vol. I del Trattato, Introduzione e parte gen., spec. p. 113; Udina, Unioni internazionali, nel Nuovo Digesto Italiano, XII, 2, p. 705-712, spec. 706; Florio, Le organizzazioni internazionali, Milano, 1949, p. 12 ss., 37 ss.; Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 263, 342 s. («ordinamento speciale»); Ago, Comunità internazionale universale e comunità internazionali particolari, La Comunità Internazionale cit., V (1950), p. 195 s., spec. 197 («comunità giuridica particolare»). I due effetti della soggettività e dell’ordinamento speciale sono spesso collegati fra loro. L’ Ottolenghi, p. es., Lezioni di dir. internaz. pubbl., 1946, p. 81, deriva, a quanto pare, l’ordinamento dall’accordo e la soggettività dall’ordinamento. E lo stesso fanno, se bene intendo, il Perassi e il Baldoni, Opere e ll. cit., e gli scrittori cit. nella nota prec. In senso analogo, Monaco, Manuale di dir. internaz. ecc., 1949, p. 111.

    Il Perassi e il Baldoni parlano di ordinamento speciale con riferimento al Patto delle Società delle Nazioni; e il primo, ora, con riferimento allo Statuto delle Nazioni Unite. L’Anzilotti ravvisa un fenomeno del genere nella Società delle Nazioni e nella comunità degli Stati americani. L’ Ago, di recente (Scr. cit.), generalizzando, esprime l’opinione che in seno alla comunità internazionale del passato e del presente il fenomeno di comunità giuridiche particolari si può constatare con notevole frequenza, citando ad esempi la Respublica christiana, la Confederazione degli Stati svizzeri dalle origini alla costituzione federale, il Bund tedesco dal 1816 al 1866, la Confederazione nord-americana dal 1777 al 1787, la Società delle Nazioni, le Nazioni Unite, il British Commonwealth, la Lega araba, l’Organizzazione degli Stati americani (O. A. S.) e il Consiglio per l’Europa: comunità la maggior parte delle quali troverebbero la loro fonte in un accordo e sarebbero caratterizzate rispetto alla comunità universale da un «vincolo associativo più stretto». Lo stesso Autore ritiene incerto, invece, «se si possa ritenere costituita una vera e propria comunità internazionale particolare anche tra gli Stati aderenti al Trattato dell’Atlantico settentrionale (Patto Atlantico) del 4 aprile 1949», che realizzerebbe piuttosto la figura della semplice alleanza o del patto di mutua assistenza e di autodifesa collettiva; e «più dubbio ancora… se si possa parlare di una comunità internazionale particolare nei confronti del sistema attuale dell’Europa orientale, che appare fondato quasi esclusivamente su una serie di trattati bilaterali dell’URSS con la Buigaria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Rumania, l’Ungheria e di questi ultimi Stati tra di loro».

    Sulla tesi della soggettività da mero accordo è probabilmente fondata la proposta belga a San Francisco (United Nations Conference on International Organisation, U.N.C.I.O., Doc. 524, IV/2/26), che nello Statuto fosse stabilito senz’altro che «The Parties to the. present Charter recognize that the Organisation they are setting up possesses international status with the rights it involves».

  42. Opere e luoghi cit. nota prec.
  43. Così fanno, p. es. L’ Anzilotti, Op. cit., per la comunità particolare degli Stati americani, e l’ Ago (implicitamente), Scr. cit., per la «Respublica Christiana»,e per altre comunità giuridiche parziali da lui elencate (v. infra p. 61); e così fa anche il Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., spec. p. 345.

    L’Anzilotti, tuttavia, concepisce la consuetudine come accordo tacito, e qualifica comunque la S.d.N. come comunità «particolare» da mero accordo. L’Ago, per parte sua, elenca un numero considerevole di comunità giuridiche «particolari» da mero accordo. E ciò senza contare l’atteggiamento negativo di quest’ultimo autore riguardo all’esistenza di consuetudini particolari.

  44. Opere e luoghi cit.
  45. Così, molto nettamente, il Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 345, il quale è però fuorviato come tutta la dottrina – quanto all’ordinamento parziale – dalle teorie organiche delle persone giuridiche.
  46. Si allude alla concezione dell’accordo o di certi accordi (per coloro che distinguono fra trattatilegge e trattaticontratto) come fonti di norme di diritto particolare in contrapposizione da un lato ai negozi ed ai contratti interni come fonti di rapporti e dall’altro alla consuetudine internazionale come fonte di norme di diritto generale. Tale concezione è condivisa unanimemente dalla totalità della dottrina italiana e trova origine nella concezione dell’accordo come fonte originaria, nelle teorie del diritto internazionale come diritto pubblico esterno, nonché nelle concezioni moniste vecchie e nuove del rapporto fra diritto internazionale e diritto interno. Essa è a volte estesa, dagli autori che ammettono la distinzione fra trattatilegge e trattaticontratto, anche a quest’ultima categoria.

    Rinviando ogni ulteriore precisazione storicodottrinale ad altra occasione, ci limitiamo a ricordare la concezione dell’Anzilotti, Corso cit., I, 1928, p. 316; del Perassi, Lezioni cit., I, p. 15 ss., ma spec. Teoria domm. delle fonti ecc. nella Rivista cit., 1917, p. 41 ss. dell’estr.; Romano, Corso cit., 1933, p. 38; Salvioli, Lesrègles générales de la paix nel Recueil d. Cours, 1933, IV, p. 6 ss., 21 ss.; Baldoni, La Società delle Nazioni, Padova, 1936, p. 54 ss.; Morelli, Nozioni cit., p. 34 ss., 39 ss.; Ottolenghi, Lezioni cit., p. 27 ss.; Ziccardi, La costituzione ecc. cit., p. 417 ss. e passim (nonostante qualche riserva a p. 416l7 ed a p. 417 ss.); Sperduti, La fonte suprema dell’ordinamento internaz., p. 140 ss.; Monaco, Manuale cit., p. 67; Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 6343; Giuliano, La comunità internaz. e il dir. cit., p. 41 s., 312 s., concezione condivisa ed esposta con particolare chiarezza dallo Scerni, voce Responsabilità degli Stati (dir. internaz.), nel Nuovo Dig. it., vol. XI, p. 472, in fine.

    In un certo contrasto con la concezione dominante si pongono, in diverso senso e misura, l’Ago, Lezioni, 1945, p. 69 ss., 78 ss., 104; ed il Balladore Pallieri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 5441. Ma il contrasto si risolve, a ben guardare, nell’aspetto terminologico, ferma restando per tutti gli accordi o per una parte di essi la concezione pubblicistica.

    Il primo Autore qualifica, è vero, l’accordo come fonte negoziale, nel senso che esso sarebbe fonte di norme come il negozio. Senonché, a parte il fatto che non tutti i negozi ma solo il contratto obbligatorio atipico è a nostro avviso una fonte di diritto nuovo, lo stesso A. intende l’accordofonte negoziale in senso così pubblicistico da ammettere senz’altro, insieme con buona parte della dottrina, che ne derivi la costituzione di «comunità giuridiche parziali» in seno alla comunità internazionale universale. Il secondo Autore, per parte sua, respinge la nozione più che negoziale dell’accordo solo per certi trattati (i trattaticontratto), ai quali nega la qualifica di fonte (non ammettendo evidentemente che sia fonte il contratto obbligatorio atipico), e tiene ferma la concezione pubblicistica per gli altri, annoverando fra questi, in sostanza, i trattati che la dottrina meno recente qualificava come trattatilegge.

    E da notare, tuttavia – dal punto di vista specifico del presente studio -, che il Balladore Pallieri è uno dei pochissimi autori, almeno in Italia, che avverta l’impossibilità di far capo ad un mero accordo per costituire una unione o istituzione internazionale. Il che implica una più netta percezione della natura negoziale dell’accordo internazionale e del limite di portata obbiettiva che vedremo derivarne.

    La nostra posizione nei confronti di entrambi gli autori risulterà chiara da quel che segue.

  47. La possibilità che da accordi derivino istituti – di diritto «particolare», ma sempre «istituti» – è largamente affermata in dottrina ed è del resto implicita nella teoria dell’ordinamento parziale. Ad «istituti» si riferisce esplicitamente lo Ziccardi, La costituzione cit., p. 37475.
  48. Tanto è vero che si discute in dottrina se l’effetto assoluto si verifichi o meno, supponendo evidentemente esistente o inesistente la norma non scritta necessaria, anche quando non se ne fa menzione. Non ci si accontenta dell’interpretazione della volontà delle parti.

    V. per tutti, in senso diverso, Balladore Pallieri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 321 e Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 447 s.

  49. V., p. es., Morelli, Nozioni cit., p. 114 s.; Ziccardi, La costituzione cit., p. 361 ss.
  50. Supra, p. 36 s., infra, p. 77 ss.
  51. Perassi, Lezioni cit., I, p. 14; Morelli, La sentenza internazionale, Padova, 1931, p. 236 ss., Nozioni cit., p. 39; Ago, Lezioni cit., 11416; Balladore Pallieri, Gli emendamenti allo Statuto delle Nazioni Unite, ne La Comunità internaz. cit., I (1946), p. 199201 (salvo che per il procedimento di produz. giuridica previsto dallo Statuto, che per il Balladore Palllieri risulterebbe probabilmente contemplato dalla norma di diritto non scritto che legittima l’unione); Quadri, Dir. internaz. pubbl., p. 63, 136 ss.; Giuliano, La comunità internaz. ecc. cit., p. 226 s., 266.

    Le perplessità che alle volte s! trovano espresse da alcuni autori riguardo alla portata di tale fenomeno sono determinate dal rilievo del carattere particolare delle norme prodotte, in contrapposizione al carattere generale delle norme consuetudinarie: «particolarità» che non costituisce (supra, p. 19) l’elemento decisivo, perché anche il contratto obbligatorio atipico interno determina «norme particolari» che pure non sono idonee a creare procedimenti di produzione giuridica. Si tratta sempre, come vedremo, della tendenza, a nostro avviso ingiustificata, a ritenere possibile l’organizzazione della società dal basso. Ma il punto richiede una indagine approfondita. Ci limitiamo per il momento a rilevare il nesso fra la concezione generale dell’accordo e le sue varie applicazioni da una parte e il problema dell’ordinamento parziale dall’altra, benché sia evidente che quel che vale per l’ordinamento parziale vale, a fortiori, per gli altri effetti assoluti nel campo dell’organizzazione.

  52. Alludiamo al movimento che ha portato la dottrina, già orientata in senso privatistico, a concepire l’arbitrato internazionale – da quello semplice o «non istituzionale» al procedimento davanti alla Corte internazionale di Giustizia – in senso pubblicistico: sia che lo si qualifichi come un fenomeno analogo all’arbitrato rituale interno, sia che lo si qualifichi come giurisdizione, sia che lo si consideri come un «mezzo di accertamento» del diritto «previsto dall’ordinamento». Alla tendenza generale in senso privatistico, già rappresentata da Jellinek, Anzilotti prima maniera, Marinoni, Salvioli prima maniera, Balladore Pallieri prima maniera, Perassi prima maniera e dal Bosco, si è ormai sostituita, com’è noto, la concezione pubblicistica avanzata dal Morelli, La sentenza internazionale, Padova, 1931, p. 1 ss., passim, e seguita, con variazioni in senso più o meno pubblicistico, dal Balladore Pallieri seconda maniera, Dir. internaz. pubbl. cit., 1948, p. 193 ss.; dal Salvioli seconda maniera, La tutela dei diritti e degli interessi internaz., nel vol. II del Trattato del Fedozzi e del Romano, p. 113 ss.; dal Perassi seconda maniera, Lezioni cit. I, p. 2126; dal Quadri, Dir. internaz. pubbl., 162 ss., spec. 164-65 (il quale, pur reagendo alla tendenza dominante, mantiene fermo il concetto di giurisdizione per certi casi nel più recente scritto su Arbitrato e giurisdizione nell’ordinamento internazionale, in Jus, 1960, p. 336 ss., proprio perché intende l’accordo anche in funzione legislativa p. 338); nonché dalla totalità della dottrina italiana, che pure è la più prudente su questo argomento.

    Sembra abbandonare ora la concezione pubblicistica dell’arbitrato da mero accordo l’Ago, Scienza giuridica ecc., l950, p. 104, quando nega che si abbia giurisdizione internazionale da diritto pattizio (nota 2) e fonda il valore della pronuncia arbitrale su di una norma consuetudinaria (nota 1).

    Questa tesi ci lascia tuttavia perplessi, da un lato perché l’esistenza di questa ultima norma – come vedremo in a!tra sede – realizzerebbe a nostro avviso gli estremi di quell’accertamento obbiettivo del diritto che è la giurisdizione, intesa come posizione della norma risolutiva della controversia nel senso del Morelli. L’arbitrato internazionale, in altri termini, sarebbe uscito, qualora quella norma esistesse, dalla fase dell’arbitrato libero, e si troverebbe in quella fase istituzionale in cui il Chiovenda ed il Carnelutti collocano l’arbitrato del nostro codice di procedura .

    D’altra parte, non vediamo per quale motivo sarebbe necessario ricorrere ad una norma ad hoc di diritto consuetudinario per spiegare il valore della pronuncia dell’arbitro (come lodo o sentenza), mentre ciò non sarebbe necessario, a quanto pare, secondo lo stesso Ago (Op. cit., p. 103), per giustificare il valore dei fatti di produzione giuridica di terzo grado e dell’ordinamento particolare da accordo corrispondente all’unione di Stati.

    I casi, a nostro modesto avviso, sono due. O si annette valore pubblicistico all’accordo internazionale, ed allora si deve dire che esso può determinare tanto la giurisdizione quanto i procedimenti di produzione giuridica di terzo grado e gli ordinamenti particolari (Perassi). Oppure si concepisce l’accordo privatisticamente, ed allora bisogna ammettere che esso non può determinare nessuno di questi tre effetti, a meno che non esista una norma ad hoc di jus non scriptum: norma di cui si dovrebbe possibilmente dimostrare l’esistenza per tutti e tre i fenomeni.

    Al pari della teoria dei fatti di produzione giuridica di terzo grado, anche questa applicazione della teoria privatistica dell’accordo richiede comunque una indagine particolare.

  53. Supra, nota 41, p. 38.
  54. Prescindiamo, per semplificare l’esposizione, dalla nota distinzione fra trattaticontratto e trattatilegge. Contro il valore più che negoziale dei secondi valgono le stesse considerazioni che valgono contro la sopravvalutazione dei primi.
  55. È sul concetto di «rapporto», come s’è visto, che si fonda comunemente la distinzione tra fonti e negozi anche dai civilisti e publicisti interni.
  56. Supra p. 19.
  57. Supra p. 19 ss.
  58. Si è detto che nulla vieta che uno stesso atto funzioni come fonte e come condizione ad un tempo. È appunto questo il caso della stragrande maggioranza degli atti negoziali di diritto interno (supra, p. 21).
  59. Supra, l. cit.
  60. Contro la rilevanza dell’astrattezza agli effetti del valore degli accordi, v., p. es., Monaco, Manuale cit., p. 58; Quadri, Dir. internaz. Pubbl. cit., p. 83.
  61. Che è la dottrina dominante per tutti gli accordi o i c. d. trattatilegge.
  62. Che è idea dell’Ago cit. sopra, p. 43 in nota.
  63. Si dovrebbe escludere dal novero dei negozi il contratto obbligatorio atipico. Il contrario di quello che tende a fare il Romano, op. e l. cit. nota seg.
  64. È questa la tendenza del Romano, Frammenti cit., voce Autonomia, p. 3 ss., spec. 8 ss. Tendenza che non sembra peraltro sviluppata dall’A. fino alla sua conseguenza logica, che sarebbe l’esclusione del novero dei negozi dl tutte le figure che tradizionalmente vi si trovano incluse ad eccezione del contratto obbligatorio atipico. Il che non crediamo i civilisti sian disposti a fare.
  65. L’idea che la qualifica di «fonte» implichi un maggior valore dell’atto è de resto essa stessa il portato dell’equivoco sul concetto di fonte e dell’erronea contrapposizione tra norma e rapporto.
  66. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942, p. 20 ss., spec. 24 s.

    Il rilievo richiamato è mosso dal Bobbio alle teorie del contratto come fatto originario di diritto, ma si estende evidentemente al contratto atipico in quanto atto di stretto autoregolamento nuovo inter partes, distinto dal contratto previsto a determinati effetti da una norma eteronoma.

    Il Bobbio insiste tuttavia più del necessario, a nostro avviso, sul carattere generale delle norme che «fanno ordinamento» perché la «generalità» è una caratteristica normale ma non essenziale del diritto che «fa ordinamento». L’inidoneità del contratto atipico – e dell’accordo internazionale in funzione di «fonte» – a determinare effetti assoluti deriva invece dal carattere strettamente volontario e paritario del diritto contrattuale, piuttosto che dal carattere «individuale delle norme»: tanto è vero che possono esservi norme individuali legislative o «giudiziarie», che determinano effetti assoluti. Ciò e del resto riconosciuto in modo evidente nel passo ricordato del Bobbio, dove, dietro l’apparente accentuazione della contrapposizione fra norma generale e individuale, si cela la contrapposizione fra norma «autonoma» ed eteronoma. Il B. parla infatti di norme individuali vigenti tra i consociati e di norme generali vigenti sopra i consociati. Dove sta anche il giusto riconoscimento della normale coincidenza delle due caratteristiche.

    Con ciò aderiamo alla concezione autoritaria del diritto – o almeno del suo fondamento in un principio di autorità, sia pure diffusa (secondo l’opinione del Romano, Ordinamento giuridico, p. l09, e del Carnelutti, Teoria generale cit., p. 6770): con la riserva che è, in senso lato, «autoritario» il diritto internazionale consuetudinario, e che nulla vieta che un ordinamento giuridico fondato su una base consuetudinaria sia costituito anche in prevalenza di norme poste mediante procedimenti paritari valutati come fonti da norme consuetudinarie. Per la giustificazione del nostro atteggiamento nei confronti della concezione del diritto come «valutazione», v. il nostro lavoro su Gli enti soggetti cit., p. 107 ss., nota 128.

  67. Supra, p. 28 ss.
  68. Sarebbe questo il caso, per es., della norma sulla «cessione territoriale», per chi accetti la dottrina che attribuisce all’accordo di cessione portata reale (supra, nota 52).
  69. Supra, p. 30 s.
  70. Saremmo dunque nell’ipotesi del negozio di diritto pubblico o fra persone giuridiche private o pubbliche.
  71. La legittimazione dello Stato secondo il diritto internazionale avrebbe luogo, come è noto, sulla base dell’effettività dell’ordinamento statuale «nel suo complesso»: legittimazione che integrerebbe la fattispecie negoziale in fattispecie di effetti giuridici eteronomi, allo stesso modo come la legittimazione dell’associazione professionale integra la fattispecie del contratto collettivo di lavoro in regime corporativo.
  72. Per questo concetto degli «organi» degli Stati dal punto di vista dell’ordinamento internazionale, v., in particolare, Kelsen, Contribution à la théorie du traité international, Rev. intern. de la théorie du droit, 1936, p. 26166; Scelle, Précis de droit des Gens, II, 1934, p. 329 ss., 346 ss.
  73. V., p. es., oltre all’Op. cit. del Kelsen, Scelle, Essai sur les sousces formelles du droit internat., Etudes sur les sousces du droit in onore di Geny, vol. III, p. 40711, 412, 414 ss.; Précis cit., II, p. 345 ss., Kopelmanas, Essai d’une theorie des sources formelles du droit internat., Rev. de droit internat. (de Lapradelle), XXI (1938), I, p. 112 ss., spec. 118 s.; da ultimo De Soto, J., La promulgation des traités, Parigi, 1946, p. 9 ss.

    Un atteggiamento analogo è tenuto da molti autori di tendenza non decisamente monista né dualista. V., p. es., Accioly, Traité de dr. intern. public., II, 1942, p. 418, ss., spec. 419.

    Questa idea segue in sostanza il Romano quando, pur escludendo che due persone fisiche possano costituire di per sé una «istituzione», (e quindi un ordinamento giuridico), ritiene che ciò sia possibile per gli Stati (Ordinamento giuridico cit., p. 56 in fine).

  74. La figura del trattato internazionale concepita dal punto di vista monista corrisponderebbe alla prima delle due specie di autonomia identificate dal Betti, Op. cit., p. 44 ss.
  75. Da ult. De Soto, Op. cit., passim e la prefaz. dello Scelle ivi; ma soprattutto Scelle, Précis cit., p. 362 ss.
  76. Così, sul problema dell’attuazione interna, è contraddittoria l’ammissione che un atto interno è necessario per l’efficacia del trattato nei confronti dei membriagenti della comunità (v. gli autori e le Op. cit., nota prec.). Ancora più contraddittoria è la distinzione, da parte di certi autori di tendenza monista, fra trattatilegge e trattaticontratto. Ed è contraddittoria – almeno quando si consideri la natura di persone giuridiche pubbliche internazionali attribuita agli Stati dai monisti e il carattere necessariamente interindividuale del diritto secondo la loro stessa teoria – la configurazione dell’accordo, al pari del contratto di diritto interno (interindividuale), come «autonome», «nicht… heteronome Form der Rechtserzeugung» (Guggenheim, Lehrbuch des Völherrechts, cit., p. 56).
  77. Essa andrebbe discussa, quindi, dal punto di vista dell’ammissibilità o meno d’un fenomeno giuridico in una «società» di gruppi chiusi («sovrani»).
  78. V. supra, p. 63-64.
  79. Che la concezione dualista del rapporto fra l’ordinamento internazionale e gli ordinamenti interni ed i suoi corollari – e, prima che la stessa concezione dualista, la realtà giuridica internazionale – sia incompatibile con la configurazione degli enti soggetti come persone giuridiche in senso tecnico, abbiamo cercato di dimostrare in altro lavoro.

    La concezione degli enti soggetti di base dell’ordinamento internazionale come le persone giuridiche corrispondenti agli Stati è esatta solo alla condizione che sia esatta l’interpretazione monista della realtà giuridica internazionale. Nell’ambito della concezione dualista essa costituisce una insanabile contraddizione in termini. Basta pensare che essa porta a configurare come soggetti composti (giuridicamente composti) o «artificiali» – in una parola come istituzioni – nientemeno che i soggetti elementari dell’ordinamento.

    La non facile e faticosa dimostrazione del punto sarebbe tuttavia impossibile in via incidentale. Ci limitiamo, quindi, agli effetti del presente lavoro, a partire dal dato dualista nella forma a nostro avviso incompleta nella quale si trova sviluppato. La percezione o l’intuizione delle conseguenze della concezione dualista degli Stati, e soprattutto della differenza del rapporto fra gli Stati e il diritto internazionale da una parte e le p. g. private e pubbliche del diritto interno e l’ordinamento statale dall’altra, si ritrova in vari scrittori dualisti, nei quali è peraltro oscurata dalla concezione organica delle persone giuridiche e dello Stato dal punto di vista interno (infra, p. 128 s. in nota).

  80. Perassi, Teoria dommatica cit., p. 41-43 dell’estr. In senso sostanzialmente analogo è orientata tutta la dottrina, anche non italiana.
  81. Il ragionamento criticato è legato, forse, ad una inesatta applicazione della Stufenbautheorie alla costruzione dell’ordinamento internazionale.

    È nota la efficace raffigurazione gradualista dell’ordinamento giuridico dovuta a questa teoria (v. per tutti Sperduti, La fonte suprema cit., p. 12627 ed i riferimenti ivi). Dato che, secondo questa raffigurazione, il vertice della piramide dell’ordinamento giuridico corrisponderebbe alla norma o alle norme fondamentali e la base ai fatti giuridici o di produzione giuridica in senso lato ad effetti oggettivamente e soggettivamente più limitati, la dottrina internazionalistica che ne ha subito l’influsso, e che eventualmente rinveniva anche nell’ordinamento internazionale delle norme fondamentali od una normabase, è stata portata a disegnare schematicamente l’ordinamento internazionale alla stessa maniera, non «mutando», d’altra parte, tutto quello che sarebbe stato necessario mutare per contenere il parallelo con gli ordinamenti interindividuali nei suoi giusti termini. La conseguenza è stata che si e posto senz’altro al vertice della piramide, se non l’accordo originario, almeno la normabase pacta sunt servanda, e più tardi la norma che prevederebbe la consuetudine come fonte, facendo poi seguire a questa, nello schema, gli altri elementi dell’ordinamento internazionale nell’ordine graduale discendente in cui essi si presentano all’osservazione. Cosicché la teoria che poneva a fondamento primo del diritto internazionale la norma pacta sunt servanda si è trovata a collocare una norma sui contratti privati al vertice di uno schema il cui parallelo di diritto interno ha al suo vertice le norme su cui poggia nientemeno che la costituzione di uno Stato unitario o federale; e la teoria attuale, che pone a fondamento dell’ordinamento internazionale la consuetudine o la normabase consuetudo est servanda – e la stessa norma sull’accordo fra le norme consuetudinarie -, si è trovata a collocare l’accordo, per quanto più in basso della teoria precedente, sempre su di un gradino più alto del giusto.

  82. Per il concetto generale, v. Savigny, I1 diritto romano, vers. it. Moschitti, t. I, | XVI. Da ultimi, Orestano R., «Jus singolare» e «privilegium» nel dir. rom., in Annali Univ. Macerata, XI (1937), p. 63 ss. (La fonte delle norme di jus singulare); Guarino A., I1 problema dogmatico e storico del diritto singolare, Prolusione, Catania, 1942; Gueli, Il dir. sing. e il sistema giur., Milano, 1942.
  83. V., in vario senso, Balladore Pallieri, La forza obbligatoria della consuetudine internaz., nella Rivista di dir. internaz., 1928, p. 361; Diritto internaz,. pubbl. cit., p. 66; Morelli, Nozioni cit. p. 32 s. e 68; Ago, Lesioni, p. 91 ss.; Sperduti, La fonte suprema cit., p. 169.
  84. V. gli autori e le opere cit.
  85. Così Morelli, Op. cit., p. 32 s.
  86. Significative in questo senso le considerazioni del Nippold, Völkerrechtliche Vertrag, Berna, 1894, p. 33 ss., spec. 35. Per dimostrare la qualità di fonte di diritto obbiettivo del trattato contro la tesi negativa fondata sul carattere non «eteronomo» della fonte, si osserva che in primo luogo il contratto, figura generale, assume in ogni branca del diritto caratteristiche conformi alle esigenze dell’ambiente e del sistema; in secondo luogo (p. 36), che, se nel diritto statuale la norma giuridica non può procedere che dallo Stato, mentre il contratto è opera dei singoli (e quindi legge e contratto derivano necessariamente da soggetti diversi), diversamente stanno le cose nel caso della Vereinbarung nel diritto internazionale. «Questa viene conclusa dalle medesime autorità che dettano il diritto, e se queste ultime perciò vogliono di comune accordo stabilire sotto la forma del contratto delle norme con cui obbligano se stesse, non si riesce veramente a vedere perché ciò non dovrebbe essere possibile» (corsivi miei).

    Possibilissimo, diciamo noi. Ma se le norme poste dai soggetti mediante contratto potranno essere sciolte in leggi nei confronti dei sudditi all’interno, esse restano norme meramente contrattuali sul piano internazionalistico fino a quando non sia dimostrato che una norma internazionale attribuisca loro valore pubblicistico. E questa norma esiste, forse, solo pei monisti.

  87. Sul carattere «pubblico», del trattato in questo senso, v., p. es., Wheaton, Elements of International Law, 6a, 1929, I, p. 488 ss.
  88. V. per tutti Quadri, La sudditanza nel dir. internaz., p. 91 s. e nota 1, p. 92.
  89. Diciamo «in teoria», perché c’è di mezzo ancora l’aspetto organizzativoistituzionale del fenomeno, di cui ci occuperemo nel capitolo seguente.
  90. Chiaramente in questo senso, Morelli, Nozioni cit., p. 113; ed in senso analogo, forse, già Salvioli, Les règles générales de la paix cit., nel Recueil des Cours cit., 1933, IV, p. 40.
  91. È il caso delle Regioni previste dalla Costituzione della Repubblica, una delle quali è stata ritenuta esistente dal giudice nonostante l’assenza di organizzazione effettiva (Gli enti soggetti cit., p. 65 ss., nota 45).
  92. L’attribuzione al trattato di effetti pubblicistici appare in un certo senso più inconcepibile dell’attribuzione di effetti assoluti al contratto atipico interindividuale. Il contratto obbligatorio atipico della società disorganizzata, infatti, avrebbe una portata maggiore dell’atto corrispondente di diritto interno, che ha dietro di sé la società organizzata.

    La maggior difficoltà è tanto più evidente quando si consideri il carattere «costituzionale» di quel principio della paritarietà o dell’uguaglianza che caratterizza, secondo la migliore dottrina, il nostro ordinamento (infra, p. 80 in nota). Che esso sia superato dalla norma consuetudinaria ipotizzata dal Balladore Pallieri è ancora concepibile. Ma che un mero contratto fra i soggetti sia idoneo a modificarlo in un ambito coincidente eventualmente con l’intera comunità, è veramente difficile crederlo.

  93. In questo senso si pronunciava in un primo tempo l’Anzilotti, Gli organi comuni delle società di Stati, Rivista cit., 1914, p. 156 ss., contro il parere affermativo dato dal Fusinato, Su la personalità giuridica dell’Istituto di Agricoltura nella stessa Rivista, 1914, p. 149 ss. E l’A. argomentava forse proprio dell’inidoneità dell’accordo in funzione di fonte a determinare l’esistenza di persone giuridiche.
  94. Cfr. supra, p. 33, con lo sviluppo storico dell’istituto.
  95. Figure che corrispondono appunto all’evoluzione storica della società dalla fase del contratto obbligatorio atipico (non istituzionale) a quella attuale del contratto di società e delle associazioni tipiche (istituti).
  96. Ciò è riconosciuto in parte dal Balladore Pallieri, La forza obbligatoria della consuetudine internaz., nella Rivista cit., 1928, p. 366, in sede di discussione della teoria del riconoscimento come atto costitutivo della soggettività giuridica. Soltanto che l’A. citato fa una differenza proprio fra l’atto di adesione ad una società civile, e l’atto del privato al quale il diritto subordina, p. es., il possesso della cittadinanza agli effetti della soggezione alle norme dello Stato, senza rilevare che in entrambi i casi – e non nel secondo soltanto – l’atto del privato funziona da condizione della soggezione a norme o ad obblighi derivanti dalla legge. La differenza fra i due casi sta solo nel fatto che nel primo il soggetto aderente o costitutore della società gode di una certa autonomia nel formulare o nello scegliere le norme statutarie. Ma quest’autonomia è profondamente diversa da quella del privato che stipula un’obbligazione mediante un contratto innominato o meramente obbligatorio, perché l’effetto costitutivo dell’ordinamento derivato – sia pure a contenuto parzialmente determinato dai costitutori o dall’aderente – deriva dalle norme di legge che regolano l’istituto della società – e non dal contratto obbligatorio atipico.
  97. Avremmo altrimenti soltanto un fenomeno di jus singulare, non avente nulla a che vedere, in sé e per sé, con l’ordinamento parziale.
  98. E questo il caso dell’Ago, Lezioni cit., p. 90-91.
  99. Infra, Cap. seguente.
  100. Per questa interpretazione dell’introduzione della regola della maggioranza nello Statuto delle Nazioni Unite, v., da ultimi, Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 244 s.; e Ross, A., La Carta delle Nazioni Unite è un trattato o una Costituzione? in Jus Gentium, vol. II, n. 23, marzogiugno 1960, p. 102 ss., spec. 108 e passim.
  101. Nel senso che la regola della maggioranza determini o accentui il carattere «istituzionale» internazionale dell’unione si pronuncia anche il Perassi, L’ordinamento ecc. cit., p. 26 s.; e così fanno, nonostante certe riserve, lo Ziccardi, La costituzione cit., p. 304; e il Giuliano, La comunità cit., p. 327, nessuno dei quali coglie il difetto essenziale della fonte rilevato nel testo. Né lo coglie l’Ago, L’organizzazione internaz. ecc. cit., p. 1921, nonostante il maggior realismo al quale anche lui s’ispira, soprattutto a causa della teoria dell’«ordinamento parziale», che esplicitamente professa nel più recente scritto già citato.
  102. Infra, p. 77 ss.
  103. Infra, Cap. IV.
  104. Infra, Cap. V.
  105. La dottrina italiana e straniera rileva sostanzialmente proprio la necessità dell’adempimento dei contraenti per il funzionamento della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite quando sottolinea il carattere indispensabile della «buona volontà» e dello spirito di collaborazione degli Stati membri per il successo di questi organismi (infra, p. 130 ss., in nota).

    Particolarmente significativo è il rilievo del Fenwick, International Law, 1948, p. 181 s. Nonostante l’importanza che anche lui dà all’abbandono del «principio dell’unanimità» nello Statuto delle Nazioni Unite, il Fenwick riconosce che «the decisions that may be taken by a twothirds majority do not encroach upon the existing rights of the members and do not extend to the making of new rules of law» (Op. cit., p. 18182). Che significa questo in termini tecnicogiuridici se non che l’attività degli organi delle NU non determina effetti giuridici assoluti, né sulla base di atti né sulla base di fatti giuridici?

  106. V. per tutti Scelle, San Francisco et la théorie du Gouvernement international, in Res publica, 1945, p. 29 ss.; e in senso critico Ago, L’Organizzazione internazionale ecc. cit., p. 20 s. in nota.
  107. Vi sono senza dubbio numerosi casi in cui gli Stati partecipanti allo Statuto delle Nazioni Unite sono obbligati ad eseguire le decisioni o le raccomandazioni di certi collegi: casi certamente più numerosi che nel «sistema» del Patto della SdN, e sull’individuazione dei quali la dottrina non è concorde (v. p. es. Balladore Pallieri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 208 s. e Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 244). Questo non vuol dire, però, che gli Stati contraenti siano «soggetti» al potere del collegio, ma solo che essi sono obbligati gli uni verso gli altri ad attenersi alle sue determinazioni: e si tratta, se non erriamo, di due cose molto diverse.

    Il Carnelutti è tanto esigente – forse a ragione -, da chiedere il «giudice» (Teoria generale cit., p. 74 in fine; e Il processo coreano cit.). Noi chiediamo solo quel minimo di «autorità» o allo stato diffuso e vago che costituisce, in ultima analisi, il fondamento della giuridicità del diritto internazionale consuetudinario.

    Un fenomeno «istituzionale» si può forse rinvenire, come vedremo, in quella forma di «organizzazione» che potrebb’essere l’egemonia. Ma vedremo che altro è la posizione istituzionale di supremazia d’uno Stato o del meccanismo d’unione in evoluzione verso una forma statuale ed altro la pretesa «competenza» del meccanismo interindividuale d’unione (Cap. V). Differenza della quale vedremo anche il rapporto con la eventuale soggettività di cui questo meccanismo goda a determinati effetti di diritto internazionale consuetudinario (ibid.).

  108. Udina, Unioni internazionali cit., p. 706.
  109. Come ci proponiamo di dimostrare ex professo altrove, la stessa ragione che impedisce di riconoscere effetti assoluti alla deliberazione di qualunque organo delle Nazioni Unite impedisce di riconoscere effetti del genere alla pronuncia d’un arbitro o della Corte internazionale di Giustizia o alla deliberazione dell’Assemblea della Società delle Nazioni o delle Nazioni Unite sui contributi degli Stati membri. La dottrina dominante ritiene esistenti questi effetti, invece, perché pensa che l’accordo possa elevare la pronuncia dell’arbitro o della Corte o la deliberazione dell’Assemblea a «fatto» o «atto risolutivo di controversia» o in senso tecnico, oppure a fatto od atto di produzione giuridica di terzo grado. Per qualche cenno sul punto v. più avanti, p. 137 in nota (e supra, nota 62).
  110. V. specialmente ArangioRuiz, V., La società in diritto romano, Napoli, 194950, p. 77 s., nonché Carnelutti, Occhio ai concetti!, nella Rivista di dir. commerc., nov.dic. 1950, p. 460 s.
  111. V. Carnelutti, Scr. e l. cit.
  112. Particolarmente chiara, in questo senso, è la posizione del Redenti, Dei contratti nella pratica commerciale, I, Dei contratti in generale, Padova, 1931, p. 1920, il quale giustamente nega l’assimilabilità dei contratti di tariffe ai contratti collettivi, per il carattere privatistico dei primi e pubblicistico dei secondi.
  113. Sulla plurilateralità fa leva, come s’è visto, l’Ago, Comunità internazionale universale ecc cit., p. 201, quando è indotto a dubitare dell’esistenza dell’ordinamento particolare nei rapporti fra l’URSS ed i satelliti dalla considerazione che questi Stati son legati l’uno all’altro da meri accordi bilaterali. Nello stesso senso sembra orientarsi il Carnelutti, Il processo coreano cit., p. 262-63.
  114. Sempre nell’ipotesi e nei limiti, beninteso, in cui si può parlare di un’organizzazione giuridica internazionale con riferimento a fenomeni del genere (infra, p. 142 s.).
  115. Tipico il noto caso della Jugoslavia.
  116. Ciò risulterà più evidente quando avremo considerato il valore dell’elemento «organizzazione effettiva» agli effetti dell’esistenza d’« istituzioni internazionali».
  117. V., p. e., le considerazioni del Monaco, Manuale cit., p. 110.
  118. Così, p. es., Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 346.
  119. Supra, p. 16 e infra, 128 s. in nota, e rinvii ivi.
  120. Dir. internaz. pubbl. cit., p. 263 pr.
  121. Non si vede, anzi, come s’è detto, perché non si dovrebbe ammettere, in tal caso, che dall’accordo stesso derivi la soggettività giuridica, almeno entro la cerchia degli Stati contraenti.
  122. La sudditanza nel dir. internaz. cit., p. 7379.
  123. Invece di riconoscere che gli strumenti che istituiscono le Nazioni Unite e gli organismi del genere non sono «carte costituzionali» né «ordinamenti» né «statuti», si è finito col dire che le costituzioni e gli ordinamenti non servono a nulla e che occorrono i mutamenti di struttura. Come se i mutamenti di struttura – almeno certi mutamenti di struttura – non fossero riconosciuti da tempo dalla dottrina del diritto costituzionale tra i fatti che determinano, per l’appunto, la costituzione in senso giuridicosostanziale.

    Dice il Borchard p. es. (The Impracticability ecc., citato più avanti, p. 967), che la difficoltà in cui si sono imbattuti gli organizzatori delle Nazioni Unite deriva «from the acceptance of an assumption, made by gentlemen like Woodrow Wilson, that the world and its processes can be changed by a mere charter or league» (corsivi nostri). E questo è giusto in un certo senso. Ma la «assumption» è aggravata e perpetuata da tutti i «gentlemen» – e questa volta si tratta dei giuristi – che accettano la qualifica degli atti istitutivi di unioni come «Charters» «Leagues», «Constitutions» e via dicendo, scambiando dei contratti fra privati con atti costitutivi di diritto pubblico e di organizzazione giuridica.

    Abbiamo troppo rispetto per le costituzioni, le società e gli statuti per accettare la formulazione del Borchard. La questione non è quella di sapere se le Charters e le Leagues siano idonee a costituire ordinamenti giuridici ed organizzazioni, ma quella di sapere se i contratti siano idonei a porre in essere Charters e Leagues. I riformatori chiedono costituzioni, e se non riescono a farle non è solo colpa loro. Ma sono i giuristi che devono dir loro che con gli accordi fra Stati sovrani non si fa la costituzione mondiale né la costituzione europea.

    I giuristi invece non solo accettano di buon grado che si parli dei contratti in questione come «leghe», «società», «statuti», «costituzioni» e via dicendo, ma scrivono libri intitolati «International Government» e «The Law of the United Nations», dove non fanno che discutere in termini di diritto costituzionale, processuale, penale e via dicendo intorno al contenuto e all’interpretazione di contratti privati. Non solo. Ma chiamano «concettualisti» e «formalisti» coloro che si rifiutano di seguirli nella sopravvalutazione dell’«organizzazione internazionale» e dei vari fenomeni connessi, quali la soggettività degli individui, la giurisdizione internazionale ecc.

    Per questo atteggiamento dei giuristi si è potuto pensare, p. es., da certe delegazioni alla Conferenza di S. Francisco, che il termine usato per qualificare le Nazioni Unite non esprimesse nientemeno abbastanza chiaramente l’idea dell’«organizzazione», «associazione», o «comunità» di Stati (Cfr. United Nations Conference on International Organization (U.N.C.I.O), Doc. 786, 1/1/27: evidentemente si sarebbe preferita la qualifica di «Stati Uniti del Mondo».

  124. L’autore della teoria – il Balladore Pallieri – pensa, invece, a quanto sembra, alla norma generale. Per parte nostra, l’elemento essenziale e l’eteronomia della fonte. Che la norma sia generale o particolare è un fattore in sé e per sé secondario.
  125. Come è stato osservato dal Morelli, Nozioni di dir. internaz. cit., p. 166.
  126. V. i riferimenti nelle note segg.
  127. Perassi, Lezioni cit., I, 1942, p. 7 ss.; Balladore Pallieri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 11 ss., spec. p. 20; Morelli, Nozioni cit., p. 9; Ago, Lezioni cit., p. 26 ss.; Ziccardi, La costituzione, cit. p. 162 ss.; Monaco, Manuale cit., p. 9 ss.; Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 21 ss.
  128. Ago, Lezioni cit., p. 67 ss.
  129. Ziccardi, La costituzione cit., p. 162 ss., 240 ss.
  130. È molto esagerato, a nostro modesto avviso, contrapporre il Patto della SdN e lo Statuto delle NU, come nuovi «ordinamenti» o «costituzioni» parziali, alla costituzione paritaria della comunità internazionale quale risulta dalla composizione della società degli Stati e dalle norme consuetudinarie che ne regolano l’esistenza, come fanno molti degli autori citati nelle note 39 ss., p. 37 s. È già molto discutibile – per noi, anzi, assurdo – il confronto tra quegli organismi e la più modesta delle associazioni o società commerciali di diritto interno.
  131. V. le pagg. immediatamente successive.
  132. Ciò risulterà più chiaro avanti, p. 118 ss.
  133. Prescindiamo da una discussione su questo punto che ci porterebbe molto lontano dal tema.
  134. Kelsen, General Theory cit., p. 316 ss.
  135. Kelsen, Op. cit., p. 319.
  136. Kelsen, The Law of the United Nations cit., passim.
  137. Guggenheim, Lehrbuch cit., p. 221, nota 159.
  138. Verdross, Völkerrecht (1937), p. 144; Guggenheim, Op. cit., p. 220 s.
  139. Anche nella dottrina dualista, è vero, si parla di «coordinamento dei distinti ordinamenti degli Stati membri », (Udina, Unioni internazionali cit. p. 706, princ. n. 2), ma intendendo gli ordinamenti coordinati come «fatti» l’uno rispetto all’altro e nei confronti dell’unione (ibid.).
  140. Quest’organismo (la comunità giuridica internazionale) sarebbe già essa stessa una unione di Stati intesi come comunità giuridiche parziali (Kunz, Staatenverbindungen cit., p. 268 ss.).

    L’unità del sistema, invero, appare evidentemente contraddetta in tema di soggettività dell’unione. Mentre il Guggenheim sembra pensare ad una personalità automaticamente spettante all’unione nell’ordinamento internazionale ed in quello interno, il Kelsen, The Law of the United Nations cit., p. 330 s., ritiene che la capacità di diritto interno «must be conferred by the law of the States concerned», e interpreta l’art. 104 dello Statuto N. U. come meramente obbligatorio per gli Stati membri. Questa antinomia è analoga a quella che si riscontra nell’ambito del sistema monista in tema di efficacia delle leggi interne contrarie al diritto internazionale. Essa è formalmente superata, come quest’ultima, dalla giuridicità di cui l’ordinamento internazionale e quello interno sarebbero rivestiti l’uno rispetto all’altro, per effetto della legittimazione del secondo da parte del primo in base al «principio dell’effettività». Superamento apparente (supra, p. 51), che farebbe sì che la personalità internazionale e quella interna dell’unione, pur non essendo conferite dal medesimo atto, trovino la loro unità nel sistema giuridico universale di cui la norma interna e quella internazionale farebbero ugualmente parte.

  141. Guggenheim, Lehrbuch cit., p. 221.
  142. Guggenheim, Op. cit., p. 221 e nota 159 già cit.
  143. Secondo il Kelsen, The Law of the United Nations cit., p. 78: «The peoples, whose governments established the United Nations became peoples of this Organisation, that means peoples of the states original members of the or Organisation, only after the Charter came into force. Prior to this date the peoples of the United Nations were the peoples of the States whose governments signed the Declaration of the United Nations of January, 1, 1942». Ma v. gia il riferimento al «popolo» della SdN, nel passo dello Scelle riportato dal Campagnolo, L’antinomie dans l’organisation internationale, nella Revue internat. de la théorie du droit, X (1936), p. 131 pr.
  144. Guggenheim, Lehrbuch, l. cit.
  145. Infra, p. 116 s., in nota.
  146. È tipico della dottrina monista, p. es., discutere il rapporto fra il Patto atlantico e lo Statuto delle Nazioni Unite come una questione di «costituzionalità» del primo ai termini dell’art. 51 del secondo. Il Kelsen, p. es., domandandosi: Is the North Atlantic Treaty in Conformity with the Charter of the United Nations? (nella Oesterreichische Zeitschrift f. öff. Recht del Verdross, Neue Folge, Band. III, Heft 2, 1950, p. 146 ss.), discute la questione da cima a fondo in termini pubblicistici (p. 146, 147, 150 e passim.), per concludere, altrettanto pubblicisticamente, che la soluzione nel senso che il Patto Atlantico non sia contrario allo Statuto delle Nazioni Unite – soluzione che condividiamo – «is authentic only if given in a decision of an authority competent under international law in a procedure determined by this law , for instance , by the International Court of Justice».
  147. Supra, p. 53. I dualisti non fanno che seguire i monisti sulla stessa strada quando osservano che qualsiasi accordo costituisce in senso lato una «unione» fra Stati; salvo a contraddirsi con la concezione privatistica dei trattati non qualificati e degli stessi trattati di alleanza, di protettorato e di annessione (infra, p. 98 s., 106 s.).
  148. Dell’importanza della soggettività internazionale degl’individui agli effetti dell’organizzazione internazionale si rendono ben conto, a differenza dei dualisti, gli autori di parte monista. Lo Scelle, p. es., non manca di rilevare che la negazione della soggettività degl’individui implicherebbe l’impossibilità di costruire la teoria del «governo internazionale», ed ha in questo perfettamente ragione. V. da ultimo, per alcune considerazioni in senso monista, anche De Soto, L’individu comme sujet du Droit des Gens, ne La technique et les principes du droit public, studi in onore di G. Scelle, vol. II, p. 693 ss., spec. 694 ss.). Se i dualisti non vedono la difficoltà, è perché essi applicano la teoria organica della persona giuridica o credono a torto di poter superare l’ostacolo facendo derivare la soggettività individuale dall’accordo in funzione di atto costitutivo d’un ordinamento speciale.

    Al solito, però, i monisti ragionano alla rovescia. D’accordo che senza gl’individui non si fa il «governo internazionale». Ma non siamo noi a decidere se gl’individui facciano parte o meno della comunità giuridica internazionale e se le condizioni essenziali del governo internazionale sussistano. E Georges Scelle non è più in grado di deciderlo di quanto lo siamo noi.

    La realtà, a nostro modesto avviso, e che bisogna cercare il governo «dell’umanità» e non il governo «internazionale». Non agli stati e al diritto internazionale, insomma, bisogna chiedere di fare il governo mondiale, ma agl’individui ed al diritto costituzionale (infra, p. 145 ss.).

  149. Kelsen, The Law of the United Nations cit., p. 149 ss. In ciò il K. applica il noto principio monista secondo il quale «Only individuals can be organs of national or international law, or – what amounts to the same – organs of a community constituted by law» (p. 160). Principio che potrà anche essere esatto, ma non risulta provato per il diritto internazionale. Esso potrebbe eventualmente significare che l’ordinamento internazionale non è diritto.
  150. Per noi dualisti, quindi, dire che lo Stato unitario o federale nasce da un trattato – come il Kelsen ritiene sia avvenuto per la maggior parte degli Stati – è lo stesso che dire che i bambini si fanno con i contratti di matrimonio .

    Sulla concezione dello Stato come istituzione internazionale v. sopra, p. 53 e rinvii 271.

  151. Son queste le conseguenze della teoria dualista intesa in maniera coerente. I dualisti non esitano invece di solito né a qualificare gli Stati come persone giuridiche (v. i riferimenti ne Gli enti soggetti cit., p. 26 ss.), né a parlare di soggettività giuridica mediata internazionale degl’individui (Sperduti, L’individuo nel diritto internazionale, Milano, 1960, passim) e di «decentramento» delle «funzioni» nell’ordinamento internazionale (Ago, Lezioni cit., p. 77).
  152. Ago, Comunità internaz. universale ecc. cit., p. 196.
  153. Ad una concezione diversa si potrebbe pervenire qualora si accogliesse la tesi dello Sperduti, L’individuo nel dir. internazionale cit., p. 20 ss., secondo la quale l’ordinamento internazionale, inteso come ordinamento virtuale dell’umanità, si asterrebbe, sì, dal legittimare e delimitare – come i monisti ritengono che faccia – gli ordinamenti statuali, ma si asterrebbe dal farlo non già perché esso si disinteressi delle società interne degli Stati stessi, ma solo in considerazione di ragioni di opportunità e realismo, da esso ordinamento avvertite in forza del principio giuridico dell’effettività al quale s’ispirerebbe.

    Tanto per lo Sperduti quanto pei monisti, in altri termini, l’ordinamento internazionale sarebbe il diritto imperfetto dell’umanità. La differenza fra dualisti e monisti starebbe solo nel fatto, secondo lo Sperduti, che, mentre pei monisti l’ordinamento internazionale legittimerebbe gli ordinamenti statuali in base alla norma o alla regola giuridica dell’effettività (= gl’individui debbono sottostare al potere effettivamente operante nel loro paese), in realtà l’ordinamento internazionale farebbe qualcosa di meno, ma a nostro avviso di molto simile: esso si asterrebbe, cioè, per il momento, dal legittimare o delimitare gli ordinamenti degli Stati, ma sempre in base ad un principio giuridico di effettività. Il che significa, per noi, che anche secondo lo Sperduti l’ordinamento internazionale terrebbe un atteggiamento fondamentalmente «attivo» nei confronti delle comunità interindividuali corrispondenti agli Stati, e si dovrebbe quindi configurare come diritto pubblico interindividuale decentrato. E nel quadro di una concezione del genere il fenomeno unionistico (al pari dell’accordo che ad esso darebbe vita) potrebbe trovare la sua collocazione quasi altrettanto facilmente quanto nell’ambito della concezione monista.

    Secondo il nostro modo di vedere, invece, l’astensione dell’ordinamento internazionale dall’attribuire rilevanza giuridica agli ordinamenti statuali non ha nulla a che vedere con il principio dell’effettività e con l’imperfezione dell’ordinamento internazionale – imperfezione giustamente negata, almeno nel senso in cui l’intendono i monisti, da vari autori dualisti (e specialmente dall’Ago, dallo Ziccardi e dal Giuliano) -, ma deriva semplicemente dalla circostanza che il diritto internazionale è l’ordinamento della convivenza dei gruppi come tali, da esso assunti nella loro unità storica.

  154. Su questo punto ritorneremo più avanti (p. 142 ss.). Per ora ci basta il dato dell’inidoneità dell’accordo in sé e per sé a determinare fenomeni istituzionali.
  155. È questa la difficoltà alla quale si devono ricondurre, in sostanza, le considerazioni del tipo di quelle svolte dal Campagnolo, L’antinomie dans l’organisation internationale, Rev. internat. de la théorie du droit già cit., p. 126-133; e forse i rilievi del Borchard, The Impracticability of «Enforcing» Peace, Yale Law Journal, LV (1945-46), II, p. 966-69.

    Nella dottrina italiana avvertono di sfuggita la difficoltà, lo Ziccardi, Federalismo, societarismo, regionalismo nell’organizzazione internazionale ne La Comunità internazionale, 1949 (IV), p. 74 s., ed il Giuliano, La comunità internazionale e il dir., p. 29596. Se ne avvede, parrebbe, anche il Quadri, Op. cit., p. 346 in fine, che è pero fuorviato dalla teoria dell’«ordinamento speciale».

  156. Supra, p. 16 ss., 36 s.
  157. Infra, p. 134 ss.
  158. V. supra, p. 91 s.
  159. Alludiamo al «fatto» della separazione, non al desiderio dei dualisti di mantenerla o ad una pura esigenza di metodo. Gli autori monisti hanno le idee piuttosto confuse a questo riguardo, ed attribuiscono ai dualisti, più o meno esplicitamente, una grave incomprensione di esigenze de jure condendo, che la maggior parte della dottrina italiana non avverte invece meno acutamente dei monisti stessi.
  160. Mentre dunque per il monista si tratta di costruire gradino per gradino la teoria del «governo internazionale» entro il sistema attuale che virtualmente contiene qualunque sviluppo futuro, il compito del dualista sarà piuttosto di accertare la portata ed il significato dell’esistenza del meccanismo stesso e della sua attività, sia nell’ambito ed agli effetti del contratto internazionalistico in funzione del quale il meccanismo stesso è costituito, sia nell’ambito dell’intero ordinamento fra gruppi, sul quale l’affermarsi eventuale dell’istituzione interindividuale può esercitare un’influenza, o alterando la composizione della società paritaria (formazione di un nuovo soggetto al posto di uno o più soggetti preesistenti) oppure sostituendosi addirittura, sul piano universale, all’ordinamento interstatuale tutto intero.
  161. Supra, p. 53 ss.
  162. V., per tutti, Kunz, Die Staatenverbindungen cit., p. 360 ss., ma spec. la definizione a p. 367, ed i riferimenti ivi. Il carattere pubblicistico del rapporto è affermato, naturalmente, anche dagli autori che concepiscono il diritto internazionale come «diritto pubblico esterno».
  163. Kelsen, Scr. cit. sopra, p. 87, nota 141.
  164. V. spec. la spiegazione data al fenomeno in Kunz, Die Staatenverbindungen cit., p. 457 ss., spec. 461 s., e 517 ss.
  165. Il perno di tutta la costruzione sta nell’idea monista che «sovranità» = «Völkerrechtsunmittelbarkeit» e «nonsovranità» = «Völkerrechtsmittelbarkeit» (mentre per il dualista sovranità = ente chiuso internamente all’azione del diritto internazionale (originario) e nonsovranità = inesistenza dell’ente come individualità distinta nell’ambito della comunità giuridica internazionale, in quanto il gruppo o l’individuo sia incluso in un altro ente più grande).

    Il passaggio di una comunità statuale dalla partecipazione ad un’alleanza alla posizione di Stato membro di Stato federale non significa, quindi, per il monista, sottrazione della comunità all’impero del diritto internazionale, ma soltanto che la comunità stessa o il suo ordinamento viene a subire l’azione del diritto internazionale indirettamente o meno direttamente, attraverso l’ordinamento parziale più accentrato di cui è entrata a far parte.

  166. Tanto per intenderci, la differenza fra monisti e dualisti in merito alla costruzione dei meccanismi d’unione è questa:

    – pei monisti, si tratta di costituire delle organizzazioni giuridiche di grado ulteriore, al di sopra degli Stati intesi a loro volta come organizzazioni interindividuali di un certo grado (secondo, terzo ecc.) e rispetto ai soggetti elementari costituiti dagl’individui. Il che i monisti ben possono fare conferendo funzioni a questi soggetti elementari attraverso l’ordinamento internazionale e gli stessi ordinamenti degli Stati, che per loro son parti dell’unico ordinamento interindividuale.

    – pei dualisti, invece, si tratterebbe di costruire organizzazioni giuridiche di secondo grado al di sopra degli Stati intesi questi come soggetti elementari. La logica stessa impedisce quindi di credere che essi possano farlo conferendo funzioni agl’individui, l’attività dei quali non è rilevante per l’ordinamento internazionale.

  167. Anzilotti, Corso cit., ediz. franc. 1929, p. 190 ss., spec. 193 in fine194; Pilotti, Les unions d’Etats, nel Recueil cit., 1928, IV, p. 496 ss.; Udina, Scr. e l. cit.
  168. V. per tutti Verdross, Völkerrecht cit., p. 54 s. e 147 pr.
  169. Per i dualisti – è evidente – si può parlare di soggettività mediata degli .individui membriorgani degli Stati solo in senso non giuridico. Solo nel senso, cioè, che sugli individui membriorgani si riflettono materialmente – materialmente per il diritto internazionale anche se giuridicamente per il diritto interno – le situazioni soggettive internazionali facenti capo giuridicamente agli Stati .
  170. Udina, Op. e l. cit. supra nota 162.
  171. Per la più coerente concezione monista della «comunità particolare» di protettorato, v. per tutti Kunz, Die Staatenverbindungen cit., spec. p. 328.
  172. V., in generale, Scerni, Saggio sulla natura giuridica delle norme emanate dag1i organi creati con atti internaz. già cit., spec. p. 914, 34 s., 44 s. e passim, e Monaco, I regolamenti interni degli enti internaz., Jus Gentium, 1938, p. 52 ss., spec. 68, 71 ss., 86.

    Per quanto siano orientati nel senso di negare la giuridicità internazionale degli ordinamenti degli enti in questione (giuridicità affermata invece piuttosto decisamente dal Balladore Pallieri, Dir. internaz. pubbl. cit., 1937, p. 54 e Le dottrine di H. Helsen ecc., nella Rivista di dir. internaz., 1935, p. 75 ss., anche indipendentemente e prima della sua ipotesi circa l’esistenza d’una norma consuetudinaria ad hoc, e negata dal Morelli, La sentenza internaz., p. 111 e L’Istituto internaz. di agricolt. e la giurisdiz. ital., nel Foro ital., 1931, I, col. 1427), i due autori citati fanno a nostro avviso delle concessioni ingiustificate alla teoria opposta, quando sembrano configurare un potere o una potestà regolamentare o una autonomia o delega conferita all’ente (Scerni, p. 37; Monaco, p. 73 ss., 79 ss., 88 ss.); quando assimilano, in maggiore o minor misura, i regolamenti ed il relativo potere a quelli degli enti o degli «organi» collettivi di diritto interindividuale (Scerni, p. 33; Monaco, p. 58 e 8889, nonostante le riserve a p. 58), e quando non escludono in maniera sufficientemente netta ogni funzione normativa dell’ente nei confronti degli Stati (Scerni, p. 14, 35; Monaco, p. 104). Il potere regolamentare ed i fenomeni similari sono esclusi dall’inidoneità dell’accordo a determinarne l’esistenza ed implicherebbero, qualora esistessero, la soggettività internazionale di coloro che ne subiscono le conseguenze e la derivazione dell’ordinamento dell’ente dall’ordinamento internazionale. L’assimilazione al fenomeno della potestà o autonomia regolamentare degli enti collettivi di diritto interno è esclusa dal fatto che gli ordinamenti di questi enti fanno parte dell’ordinamento statuale e sono emanati in virtù di poteri da questo conferiti mediante norme istituzionali scritte o non scritte. E l’attività normativa nei confronti degli Stati è esclusa dall’inidoneità dell’accordo a creare la supremazia dell’ente sugli Stati stessi. La ragione delle incertezze rilevate sta, insomma, o nella sopravvalutazione della portata dell’accordo in funzione di produzione giuridica, oppure nella impropria concezione organicistica degli enti morali del diritto interindividuale.

  173. La difficoltà deriva per l’appunto dal fatto che le unioni di Stati da un lato non costituiscono per i dualisti vere e proprie unioni se non presentano qualcosa di più d’un rapporto contrattuale di collaborazione: e l’elemento aggiuntivo dovrebb’essere quello organicoistituzionale. Dall’altro lato, non appena siano munite di questo elemento, diventano inevitabilmente, stando alla classificazione dualista, delle unioni costituzionali, ossia degli enti unitari dal punto di vista del diritto internazionale. L’impossibilità di trovare una zona intermedia fra queste due alternative spiega il carattere confuso, incerto e spesso contraddittorio delle varie classificazioni che operano sulla base del progressivo perfezionamento del preteso vincolo associativo internazionalistico (e per una rassegna critica delle quali v. spec., nell’ambito della dottrina dominante, Pilotti, Les Unions d’Etats, Recueil, 1928 cit., p. 44766; e Udina, Unioni internaz. cit., 705711). L’eliminazione di questi difetti è possibile solo alla condizione di accettare l’irrealistica concezione monista degli enti soggetti di base come istituzioni di diritto internazionale, oppure la costruzione che si cerca di delineare nel testo. Rilevano la difficoltà senza risolverla gli aa. cit.. alla nota 150.

    I monisti, naturalmente, ci obbietteranno che gl’inconvenienti denunciati provano l’insostenibilità della tesi dualista e la rispondenza della loro costruzione alle esigenze del progresso. Noi replichiamo che il progresso non si serve escogitando una formula (leggi: la legittimazione degli Stati da parte del diritto internazionale e la soggettività internazionale degl’individui), che consenta di presentare come avvenuto o facilmente realizzabile un progresso che non è realizzato e non è realizzabile con i mezzi offerti dall’ordinamento internazionale, ma commisurando realisticamente l’idoneità dei mezzi disponibili al risultato desiderato, per vedere se i primi siano idonei allo scopo. Ricerca che porta nel caso in esame proprio alla conclusione che il progresso desiderato va cercato non già attraverso il diritto internazionale, ma attraverso la sostituzione dell’ordinamento paritario della comunità degli Stati con l’ordinamento gerarchico dell’umanità. Sviluppo che va provocato agendo sul piano interindividuale più che sulle cancellerie.

  174. V., fra gli altri, soprattutto per il profilo storico e giuridico interno, Fiske J., The critical Period of American History, 17831789, Boston e Nuova York, 18881916, spec. p. 50 ss., 90 ss.; Small, A. W., The Beginnings of American Nationality, The Constitutional Relations between the Continental Congress and the Colonies and States from 1774 to 1789, nei «John Hopkins Univ. Studies in History and Pol. Science» editi dall’Adams, Serie VIII, III, Baltimora, 1890, spec. p. 14 ss.; Hockett, H.C., The Constitutional History of the United States, 17761826, Nuova York, 1939, p. 107 ss., spec. 130 ss.; ed i capitoli introduttivi dell’opera dell’Ogg e del Ray citata più avanti.
  175. Il Massachusetts, tanto per fare un esempio fra i tanti, costituì già nel 1775 una Corte per la concessione di patenti per la guerra di corsa e pei giudizi sulle prede: segno ch’esso intratteneva rapporti d’ordine internazionalistico. E prima degli Articles of Confederation, il Congresso ebbe spesso a pronunciarsi su controversie fra Stati in condizioni che non avevano nulla a che vedere con la giurisdizione istituzionale interna esercitata poi dalla Corte Suprema nei rapporti interstatuali. Se alle volte appare il contrario, è perché, accanto al fenomeno internazionalistico in fase decrescente, si veniva sviluppando l’istituzione federale.

    La dottrina è concorde, in genere, sulla soggettività degli Stati in confederazione. V., per tutti, Pilotti, Op. cit., p. 489 s., 494.

  176. È questo un punto non apprezzato generalmente in tutto il suo valore dai costituzionalisti (e nemmeno dallo Small, Op. cit.). I delegati al 1o congresso continentale (come risulta da Small, The Beginnings of Am. Nationality cit., p. 16 ss. – il quale fa riferimento diretto agli atti – furono nominati non già dagli esecutivi ma dalle assemblee legislative e in numerosissimi casi – forse la maggioranza – direttamente da comitati o da gruppi di singole contee o città. Ed i delegati al secondo congresso furono scelti in maniera analoga (elencazione in Small, Op. cit., p. 43-44). Nella Colonia di Nuova York, p. es., l’elezione dei delegati ebbe luogo in una convenzione provinciale costituita di rappresentanti della città e contea di Albany e delle contee di Dutchess, Ulster, Orange, Westchester, King’s e Suffolk, più 4 rappresentanti di un gruppo di «freeholders» della contea del Queen. E lo stesso era avvenuto nel Maryland nella Virginia, nella Carolina del Nord. Per il rilievo che questo elemento assume nella teoria delle unioni universalistiche e regionali, infra, p. 150.
  177. Gli «Articles of Confederation», non c’erano ancora.
  178. È a questa contrapposizione che corrispondono, grosso modo, i termini di «league» e «government» ed «association» e «nation» (v. per es. Hockett, Op. cit., p. 164), usati dai costituzionalisti americani per distinguere i patti confederali del ’74’75 e del ’77’81 dalla più perfetta unione. La contrapposizione non ci sembra tuttavia abbastanza sentita agli effetti della distinzione fra i due fenomeni giuridici nel corso stesso del loro sviluppo combinato. Lo sviluppo viene inteso, insomma, in senso monistico, identificandosi così la «costituzione» prima con il patto confederale e poi con la costituzione formale, anziché dal principio alla fine con il processo di formazione della comunità interindividuale totale. Tendenza che corrisponde, come vedremo, alla teoria delle unioni dei monisti e dei dualisti monisteggianti (infra, p. 148 e qui di seguito, nota 179).
  179. Su questa lotta spesso acutissima fra i due sistemi e il graduale trionfo della «nation» sul patto interstatale basato sulla «buona fede» delle parti [leggi: volontà di adempiere alle obbligazioni pattuite], v., p. es., Hockett, Op. cit., Cap. XVI (Federal authority versus States Rights), p. 324 ss.; Fiske, The Critical Period cit., passim. Sul contrasto fra i due «sistemi», Biscaretti, Contributo alla teoria giur. della formaz. degli Stati, Padova, 1938, p. 222 (con altri riferimenti). Il rilievo del contrasto non ci sembra tuttavia sufficientemente sviluppato nella dottrina cit.
  180. Tipico nel senso che il Congresso non agiva sugli Stati con effetti giuridici diretti ed assoluti – almeno nei limiti e per il periodo in cui gli Stati ritennero una sovranità effettiva – è il famoso caso Olmstead (United States v. Peters), in cui, nonostante l’accettazione degli Articles of Confederation, un giudice della Pensilvania si pronunciò in senso contrario a una decisione della Commissione del Congresso per le controversie intercoloniali relativa ad una questione di preda (v. Carson, H.L., Pennsylvania Defiance of the United States, Harper’s Magazine, CXVII (1908, ottobre), p. 607678; e Hockett, Op. cit. p. 324-26). È evidente peraltro che siamo di fronte ad un caso limite. I membri della Commissione congressuale per le controversie interstatuali decisero di non dar corso ad altre cause fino a quando la loro autorità non fosse stabilita (v. Hockett, Op. cit. p. 16667) e la questione trovò la sua soluzione solo vari anni dopo, quando fu prima sistemata dall’autorità giudiziaria e poi definita nei suoi termini legali dal ChiefJustice Marshall sulla base dell’ordinamento nuovo. Altrettanto interessante è la questione dei poteri del Congresso sulla milizia, sulla quale v. Hockett, Op. cit. p. 33136.
  181. Infra, p. 138 s.
  182. È lo sviluppo dell’idea della «perpetuità» dell’unione e della tendenza del Congresso ad agire direttamente contro il perturbamento dell’ordine costituzionale nei singoli Stati.
  183. Supra, p. 65, 89 ss.
  184. È appunto questa l’interpretazione data al fenomeno dal Kelsen quando afferma che gli Stati, e soprattutto quelli federali, possono nascere da un trattato (General Theory cit., p. 326). E nello stesso senso si pronuncia il Ross, A., La carta delle Nazioni Unite è un trattato o una costituzione?, in Jus Gentium, vol. II, n. 24, marzogiugno 1960, p. 103, quando afferma che «La Costituzione americana del 178789 venne storicamente in essere come un trattato; e ciò in perfetta conformità alle norme di emendamento della federazione del 177781, per le quali la ratifica era richiesta per tutti gli Stati partecipanti. Dopo che la nuova Costituzione fu approvata dagli Stati Uniti riuniti in Congresso, ebbe efficacia in tutti gli Stati come carta costituzionale, benché ivi nell’art. 7 chiaramente si dica che il nuovo ordinamento non sarebbe stato vincolante per lo Stato che non avesse ratificato il documento. Inoltre la Costituzione prevede all’art. 5, che i futuri emendamenti siano operanti solo se ratificati dai tre quarti degli Stati membri. Dunque il documento in questione, riguardato sotto l’aspetto sistematico, ha posto in essere una Costituzione, non un trattato». E questo, evidentemente – secondo il Ross -, perché prevalse il principio della maggioranza fra gli Stati.

    La verità è che innanzi tutto gli emendamenti non c’entrano affatto. Un contratto obbligatorio fra individui resta tale anche se prevede la facoltà d’uno dei contraenti di modificarne determinate clausole, Esso diventa qualcosa di diverso quando il potere di emendamento è conferito dal diritto obbiettivo stesso ad uno dei contraenti o dei soci oppure alla maggioranza. E lo stesso vale pei trattati. Il patto d’unione è rimasto un contratto obbligatorio fino a quando è rimasta ferma l’individualità originaria distinta degli Stati, vale a dire fino a quando l’ordinamento interindividuale nazionale non si è sostituito all’ordinamento pattizio interstatuale.

    In secondo luogo – e questo è ancora più importante – il trattato non ha nulla a che vedere con la Costituzione degli Stati Uniti. Quest’ultima trova la sua base nell’organizzazione della Nazione americana, nella volontà della maggioranza, o in quella dei gruppi dominanti, non nel trattato: né in quello del 178789 e tanto meno in quello del 177781. Il trattato è rimasto sempre un contratto fino a quando la sua funzione non si è esaurita per il venir meno della individualità internazionale residua dei contraenti. È ormai pacifico infatti nella dottrina costituzionalistica americana che del patto non rimane nulla nell’attuale costituzione, in quanto i popoli degli Stati «were… so merged in a common, superior, national fabric that the states also, as political units, had become inextricably embedded in it» (Ogg e Ray, Introduction to American Government, 9a ediz., Nuova York, 1948, p. 63). Questo significa per noi che logicamente e storicamente il processo costituzionale è consistito nella graduale formazione della «national fabric», ossia in un processo di organizzazione interindividuale che dal patto ha potuto solo essere facilitato. L’organizzazione fra Stati in senso proprio non c’è stata mai, ed il patto in sé e per sé è venuto esaurendo la sua funzione man mano che il meccanismo da esso previsto si veniva sviluppando nell’istituzione interindividuale.

    Quel che vale per la Costituzione degli Stati Uniti vale ugualmente, come vedremo, per la «Costituzione delle Nazioni Unite»: con la non piccola differenza che, maggioranza o non maggioranza, la «Costituzione delle Nazioni Unite» non esiste, per il momento, se non in quel microscopico fenomeno istituzionale che è l’organizzazione interindividuale di Lake Success, e prenderà una certa consistenza, eventualmente, se e quando il rapporto proporzionale fra questo fenomeno e l’umanità intera si avvicinerà al rapporto che esisteva nel periodo considerato fra gli organi federali facenti capo al Congresso e la nazione americana. Per ora, quindi, esiste solo quel contratto che è la «Carta», e si tratta solo di vedere che rapporto sussista fra questo contratto ed il meccanismo d’unione (infra, p. 124 ss.).

  185. Se c’è un caso in cui non si può accedere all idea dell’«originarietà» dei poteri e degli ordinamenti degli Stati federali ed alla teoria dello stato federale come trasformazione del patto confederale, esso è proprio quello dell’unione americana.

    A parte lo sviluppo storico, che dimostra in maniera evidente che la costituzione federale fu il prodotto delle forze federaliste operanti sulla nazione e intorno al Congresso e non della volontà degli Stati, basta pensare a due fenomeni. Da un lato c’è la posizione assunta dal governo federale nei confronti degli Stati confederati durante e dopo la guerra civile del 186165 e il perdurare degli ordinamenti di questi Stati dal punto di vista dell’ordinamento federale. Dall’altro lato il fatto che, degli Stati componenti l’Unione, la maggior parte si son costituiti in territori federali e si sono dati una costituzione sanzionata formalmente dal Congresso con l’«enabling act» e l’«ammissione». Sui due punti v. le considerazioni e le indicazioni bibliografiche ne Gli enti soggetti cit., p. 74 s. e 183, rispettivamente, in nota.

  186. V., p. es., Biscaretti di Ruffia, Contributo cit., p. 219 ss., spec. 22225; e Horneffer, Die Entstehung des Staates, Tübingen, 1933, p. 210.
  187. Non mancano, nell’ambito della dottrina dualista, autori che tendono a collocare il fenomeno delle unioni ad un posto meno lontano dal giusto e che negano soprattutto che si possa parlare di vere e proprie associazioni fra Stati. Accanto agli autori dualisti che parlano anche loro, come i monisti, d’istituzioni internazionali, ossia d’un fenomeno di soggettività collegato ad un fenomeno di organizzazione, vi sono vari scrittori italiani che per un verso o per l’altro negano o dubitano che questo fenomeno esista. Contrari all’idea dell’esistenza di istituzioni internazionali corrispondenti alle unioni sono in misura più o meno grande l’Anzilotti, il Morelli, l’Ago, lo Ziccardi ed il Giuliano. Senonché, a parte il fatto che le teorie di questi autori sono per lo più incomplete, non c’è costruzione che per un verso o per l’altro non sia insoddisfacente dal nostro punto di vista e spesso – a nostro avviso – contraddittoria. Il che deriva soprattutto dalla impropria concezione dell’accordo normativo e dall’imperfetta nozione di persona giuridica ed istituzione, e specialmente dalla portata pubblicistica riconosciuta al primo e dall’idea che la persona giuridica sia un «ente reale» al pari dei soggetti elementari. I termini del problema son tuttavia troppo complessi ed ingarbugliati perché si possa procedere ad un esame esauriente di queste varie costruzioni senza fermarsi ex professo su ciascun autore. Ci permettiamo perciò di procedere per nostro conto per la via che ci sembra più giusta, rilevando man mano i punti di consenso e di dissenso.
  188. E questo un punto presso che pacifico nella dottrina dualista. V. per tutti Ziccardi, La costituzione cit., p. 309-16; Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 36-37.
  189. In questo senso riteniamo esatta la definizione data al fenomeno unionistico dall’Ago, L’organizzazione internaz. dalla S.d.N. alle Nazioni Unite cit., p. 9, e specialmente il rilievo di quest’autore che «Se di novità si poteva parlare in un confronto tra il sistema previsto dal Covenant e quello precedente, non era dunque per il carattere e la struttura degli organismi posti in essere; ma piuttosto, oltre che per l’allargamento in un sistema decisamente universale di quello che era stato prima un sistema prevalentemente europeo, per altri due aspetti: e cioè da un lato per la stabilità delle conferenze diplomatiche predisposte e per la periodicità delle loro riunioni, e dall’altro per la preventiva accettazione da parte dei membri della Società di alcuni degli obblighi relativi sia alla messa in moto e al funzionamento degli organismi creati, che al comportamento dei membri stessi nei confronti delle decisioni di quegli organismi o. (Scr. l. cit.). Tuttavia, per quanto esatta in sè e per se, questa definizione risulta contraddetta, a nostro avviso, dall’adesione dell’autore citato all’idea della società, associazione o comunità parziale da accordo fra gli Stati in unione.
  190. In senso contrario, per un verso o per l’altro (ma in misura diversa), v, gli autori citati sopra, alle note 39 ss.
  191. È il fenomeno, tanto per intenderci, che l’Anzilotti ed altri autori ravvisavano in un primo tempo nell’arbitrato internazionale, comunque si costruisca poi tecnicamente il rapporto tra il fatto posto in essere dal meccanismo e l’accordo. Che il fatto del meccanismo sia «integrativo» dell’accordo (Anzilotti) o sia l’accordo stesso (Salvioli), si tratta sempre di qualcosa che non ha un valore obbiettivo proprio, diverso dalla norma contrattuale stessa.
  192. L’enumerazione che segue è meramente esemplificativa.
  193. Nel Patto della S.d.N. appartenevano, p. es., a questa stessa categoria la norma contenuta nella parte dell’articolo 12 relativa all’obbligazione di sottoporre le controversie ad arbitrato o regolamento giudiziario e di non ricorrere alla guerra se non dopo tre mesi dalla pronuncia dell’arbitro o del «tribunale»; e la norma contenuta nella parte dell’art. 16, n. 1, relativa all’obbligazione di rottura delle relazioni commerciali e finanziarie con lo Stato che ricorresse alla guerra venendo meno all’obbligazione di cui sopra.
  194. I fenomeni paralleli nel Patto della S.d.N. e ne]lo statuto di qualsiasi altra unione politica o tecnica sono evidenti.
  195. Per la più completa formulazione di questa teoria, si veda Perassi, L’ordinamento delle Nazioni Unite cit., spec. p. 22-23.
  196. … nel senso più preciso che si vedrà subito.
  197. Infra, p. 136, 141 ss.
  198. A parte le teorie istituzionalistiche, fra le quali va annoverata anche quella del Perassi stesso, e sulla critica delle quali non insistiamo, la teoria dell’organo comune fu avanzata in un primo tempo dall’Anzilotti, Gli organi comuni delle società di Stati, nella Rivista di dir. internaz., 1914, p. l56 ss., nel quadro d’una concezione tendenzialmente negativa della possibilità che l’accordo creasse istituti internazionali (supra, nota 92), ma veniva collegata dallo stesso A. ad un concetto allora non precisato di «società di Stati». Più tardi, poi, la teoria fu elaborata ulteriormente dallo stesso Autore soprattutto con il concetto di «organo collettivo» (Corso, cit. 1928, p. 257 ss.): concetto che restava collegato anch’esso, pero, con quelli di comunità ed ordinamento particolare e di società di Stati (p. 258-59), sia che l’A. ammettesse la soggettività dell’unione corrispondente (come l’Anzilotti faceva per la Società delle Nazioni), sia che la negasse (come faceva lo stesso Autore per le unioni amministrative). L’idea è seguita attualmente dal Morelli, Nozioni cit., p. 166 ss.; e dal Giuliano, La comunità internazionale e il dir. cit., p. 265-54, 295 s.

    Per quanto ci riguarda, l’idea ci sembra insostenibile perché il concetto di organo comune importa che tutti gli Stati agiscano per esso simultaneamente ed in maniera identica (Perassi, Lezioni cit., I, p. 151 ss., 186), e l’azione simultanea ed identica si ha soltanto nei casi in cui la dieta, l’assemblea o il consiglio agisca sulla base del principio dell’unanimità o comunque in caso dai ratifica generale dell’attività dell’organo da parte degli Stati in unione. È inverosimile parlare di azione simultanea ed identica degli Stati nei casi in cui l’organo prenda decisioni evidentemente non accette ad uno o più di loro (eventualmente addirittura assenti dalla riunione), ed il cui eventuale misconoscimento da parte dello Stato che se ne sentisse leso non viene d’altra parte mai presentato dalla Stato stesso (nè contestato dagli altri) come la revoca d’un atto compiuto: tanto meno come la destituzione dell’organo o come un gesto rivoluzionario.

    A parte questo, poi, non va comunque dimenticato che il concetto di organo comune non si concilia affatto, come sembra ritenere il Giuliano, con l’idea che, a differenza del caso dei soggetti elementari, esista qui una qualche organizzazione giuridica internazionale. Se è vero infatti che organo comune significa organo proprio contemporaneamente di ciascuno degli Stati fra i quali e comune (Perassi, Lezioni cit., p. 151 ss., p. 185 s.), l’idea d’un’organizzazione giuridica internazionale diversa da quella degli enti soggetti di base è esclusa in ogni caso, comunque s’intenda la figura giuridica dell’organo statuale dal punto di vista del diritto internazionale. Se si parte dal concetto degli organi degli Stati dal punto di vista del diritto internazionale professato dal Perassi e dal Morelli – concetto che non condividiamo – (e v. spec. il nostro lavoro su Gli enti soggetti cit., Parte II, Cap. II, Sez IV), l’organo comune farà parte di una organizzazione giuridica dal punto di vista internazionale solo nel senso (a nostro avviso inesatto) in cui sarebbero tali gli altri organi attraverso i quali gli Stati agiscono in modo giuridicamente rilevante (almeno nel senso in cui son tali quegli organi degli Stati che sarebbero «istituiti» direttamente, secondo l’Anzilotti e i due autori ricordati, dallo stesso diritto internazionale). Non si potrebbe quindi parlare di «organizzazione internazionale» se non nello stesso senso improprio in cui se ne parla con riferimento all’organizzazione degli Stati stessi. Se poi non si condividesse – come noi non condividiamo – il concetto degli organi dei soggetti «Stati» come organi giuridicamente determinati dall’ordinamento internazionale (direttamente o indirettamente), non si potrebbe assolutamente parlare, come fa il Giuliano, di organizzazione giuridica internazionale in nessun senso, perché fra gli Stati-soggetti ed i loro «organi» non esiste, dal punto di vista del diritto internazionale, alcun rapporto giuridico. Si potrebbe solo parlare di un obbligo internazionale degli Stati di costituire un «organo comune». Ma sarebbe evidentemente tutt’altra cosa, perché la costituzione e il funzionamento dell’organo non sarebbero che adempimento dell’obbligo, e quindi, per l’ordinamento internazionale, dei fatti.

    La ragione per cui la dottrina crede di vedere, malgrado tutto, una certa organizzazione giuridica internazionale nel fenomeno delle unioni di Stati risiede nel fatto che essa non intende la differenza fra l’ente collettivo in quanto formazione storica e quell’ente giuridicamente composto che è la persona giuridica interna e dovrebbe essere eventualmente la pretesa persona giuridica internazionale. E questo vale anche per il Giuliano, che non intende appieno le ragioni ed il significato delle «riserve» che egli formula riguardo alla possibilità di concepire gli enti soggetti corrispondenti agli Stati come entità giuridicamente organizzate, ossia come enti morali.

    Una di queste ragioni – che abbiamo cercato di esporre ampiamente nel nostro lavoro citato – è appunto il fatto che l’ordinamento interno, regolando la convivenza d’una società interindividuale, costruisce esso stesso i c.d. «enti collettivi», conferendo funzioni e poteri ad individui. Questi non sono quindi mai organi degli enti morali inferiori o dello Stato, perché agiscono loro stessi in modo giuridicamente rilevante per l’ordinamento, anche nell’esercizio di funzioni e competenze formalmente spettanti all’ente. L’idea che si tratti di «organi» è una finzione bella e buona. Quanto agli enti soggetti primari dell’ordinamento internazionale, invece, pur trattandosi di enti collettivi, essi non sono «costituiti» dall’ordinamento internazionale, che si occupa soltanto delle loro relazioni esterne prendendoli come li trova formati storicamente. Gli individui «agenti», quindi, sono «organi» in senso proprio degli «Stati dal punto di vista del diritto internazionale», perché i loro atti non hanno rilevanza giuridica (il che è intuito parzialmente dal Biscottini, Volontà ed attività dello Stato nel dir. internaz., nella Rivista di dir. internaz., 1942, p. 3 ss.).

    Venendo alle «unioni di Stati», in tanto si potrebbe parlare di organizzazione internazionale con riferimento ai loro c.d. «organi», in quanto agissero nel loro ambito dei soggetti, cioè degli Stati o degli enti assimilati. Poiché. invece vi si trovano solo agenti-individui, è evidente non potersi parlare di organizzazione giuridica internazionale più di quanto sia lecito parlare di organizzazione giuridica internazionale a proposito dell’organizzazione interna degli Stati e degli enti assimilati: e questo nemmeno nel senso di «organi comuni» internazionalmente costituiti.

    L’idea contraria deriva dal fatto che si parte evidentemente dalla teoria organica degli enti morali e dello Stato del diritto interno, che presenta l’organizzazione di questi enti come un «fatto storico» assorbendo l’attività degli agenti in quella della persona giuridica. Idea che impedisce di arrivare a quella identificazione dello Stato e delle persone giuridiche inferiori del diritto interno come entità meramente giuridiche (corrispondenti all’ordinamento totate o parziale), che sola consente di intendere il fenomeno dell’organizzazione giuridica quale fenomeno di distribuzione ed esercizio, da parte di soggetti, di poteri, funzioni e competenze loro conferiti dall’ordinamento. E si capisce che, una volta intese organicisticamente le persone giuridiche e come «fatto storico» il loro apparato organizzativo, non si veda più la differenza dal punto di vista internazionalistico fra lo Stato e l’organizzazione internazionale, e si sia portati a ravvisare quest’ultima o negli organi degli Stati stessi oppure nella organizzazione di un ente elementare.

  199. Per un’applicazione analoga di questo concetto, a parte la riserva che segue in ordine al («valore» giuridico del fatto, v., per tutti, Morelli, La sentenza internazionale cit., p. 69-81.
  200. Il Perassi è invece orientato – ed e con lui tutta la dottrina italiana – nel senso che gli «organi di funzioni» siano idonei a porre in essere fatti di produzione giuridica e fatti risolutivi di controversia (supra, p. 40 ss. e 65, in. nota), che sono per noi fenomeni di diritto assoluto non riconducibili alla volontà dei soggetti ed all’adempimento di obbligazioni. Nel senso perassiano è orientato ultimamente anche l’Ago, Scienza giuridica e dir. internaz. cit., p. 103, testo e nota 2.
  201. Infra, num. seguente.
  202. Particolarmente acuto è il rilievo dello Zimmern, Alfred, The League of Nations and the Rule of Law, Londra, 1939, p. 288, che «what the League is, at any given moment, is determined in fact by the degree of willingness on the part of the powers to co-operate with one another». Non potrebb’essere meglio espressa la necessità della persistenza della volontà di adempiere alle obbligazioni assunte, sia per quanto riguarda il funzionamento del meccanismo, sia quanto all’atteggiamento da tenere nei confronti delle decisioni dell’«organo di funzioni». Ed un rilievo analogo si trova nell’Ago, L’organizzazione internazionale cit., p. 21-23; nel Borchard, The Impracticability of «Enforcing» Peace, nello Yale Law Journal, LV (1945-46), II, p. 966; e nell’Eagleton, The United Nations: Aims and Structure, nello stesso Journal, p. 996 in fine. L’idea qui accolta dello «strumento» che vale per il fine a cui e usato e per il modo in cui e usato – idea evidentemente diversa da quella dell’istituzione internazionale – si trova espressa in maniera altrettanto efficace dallo stesso Zimmern (Op. cit. p. 289), quando osserva che, non appena venga meno lo spirito di collaborazione, non resta nulla più che il meccanismo. «Then ”the League”, from which some have expected wonders, is, in and by itself, politically impotent. It cannot function by its own effort nor survive indefinitely by its own momentum: a momentum originally supplied from outside [cioè dalla volontà degli Stati]. By itself it is nothing. Yet the peoples persistently regard it as Something. The impalbable. Something is not a legend or a myth. It exists. It has even exercised authority, controlled the rulers on states and prevented war. But that Something does not reside in a tabernacle at Geneva, It is communicated to Geneva by the peoples of the Member States. It is their will and their will alone which can make the League a living reality» (Op. cit., p. 289-90).

    Dello Zimmern non accetteremmo tuttavia l’idea della «Cooperative Society of States», come non accettiamo l’idea della società che qua e là fa capolino nell’Anzilotti e in tanti altri autori. Migliore, invece, l’idea dello «instrument of co-operation» o della «machinery», che si traduce in termini giuridici proprio nel concetto di «organo di funzioni».

    Un altro concetto particolarmente efficace per descrivere la funzione non istituzionale delle unioni, e che pure richiama l’idea dell’«organo di funzioni», è quello di «funzionalismo» e di «organizzazione funzionale», che spesso si tende a mettere da parte nel definire le unioni politiche a fini generali, sostituendolo con l’idea della «società» di Stati.

    Ogni unione è un meccanismo che fornisce servizi tecnici, esortazioni e determinazioni agli Stati contraenti senza che queste attività implichino mai l’esercizio di «poteri» o «funzioni» sul piano giuridico internazionale. E questo vale per l’attività nel campo politico e della sicurezza non meno che per i servizi postali internazionali. La Società delle Nazioni o le Nazioni Unite non difendono nè salvano la pace, ma forniscono soltanto agli Stati un mezzo che stimoli e faciliti la formazione in ciascuno di loro della volontà di non violarla o di difenderla, nè più ne meno di come l’Unione postale universale non amministra i servizi postali e non fa viaggiare le lettere, ma fornisce solo agli Stati uno strumento di. coordinamento dei rispettivi servizi. La sola «funzione» dei meccanismi della Lega era, per dirla con lo Zimmern, «that of helping its member States to discover ”sensible” ways of dealing with their own affaire». E gli «affaire» rimangono giuridicamente sempre degli Stati stessi. Il che resta vero, come vedremo, sul piano del diritto internazionale anche quando il meccanismo si vada sviluppando in uno Stato (infra, num. seg.) o diventi un «soggetto» a qualunque effetto diverso dalla sua funzione di «organo» unionistico (p. 130 ss.).

    Quel poco di «più istituzionale» che si può rinvenire nelle unioni a scopi generali tipo S.d.N. e Nazioni Unite, e quella funzione propagandistica del «foro» o della «tribuna» esattamente rilevata dall’Ago (L’organizzazione internazionale ecc. cit., passim); dal Guggenheim (Realtà e ideologia ecc. cit., p. 172); e dal Quadri, (Op. cit., p. 247-48), nell’ambito di costruzioni tendenzialmente pubblicistiche: funzione che deriva dall’interesse politico maggiore dei dibattiti che vi si svolgono piuttosto che da una struttura ed essenza diversa del meccanismo.

    Per quanto sostanzialmente favorevole alla nostra tesi, non ci persuade invece l’osservazione del Brierly, The Law of Nations, 3a ediz., Oxford, 1942, p. 48-49, che «there is something artificial in saying, even if it is strictly true in theory, that such important institutions of international life as the Postal and Telegraph Unions, or the European Danube Commission, or the Permanent Court of International Justice, or the League of Nations with its multifarious activibies, are nothing but contractual arrangements between certain states. It is right that we should look behind the form of these treaties to their substantial effect».

    Ci permettiamo di dubitare che qualcosa sia vero in teoria e non vero in pratica. O la teoria è buona, ed esprime la realtà; o non esprime questa realtà e va cambiata. Quanto alla necessità di cui parla il Brierly di guardare, al di là della «forma», all’effetto «sostanziale» dei trattati in questione, ci sembra che l’illustre scrittore inglese sia in equivoco. La sopravvalutazione deriva proprio dalla forma statutaria dei trattati di unione. Ed è proprio quando si guardi dietro questa forma, come facciamo noi dualisti, che si è in grado di valutare più realisticamente il fenomeno. A meno che, beninteso, il Brierly non confonda l’attività «sostanziale» svolta dagli Stati (in adempimento degli obblighi assunti o determinati, nel senso che s’è detto, dall’«organo di funzioni») con l’attività dell’Unione stessa.

  203. A parte le contraddizioni derivanti dalla teoria dell’«ordinamento particolare» dell’«organo comune» o «collettivo» o dalla stessa teoria dell’«istituzione internazionale», sono orientati fondamentalmente in questo senso: Anzilotti, Corso cit., 1928, p. 16, 47; Ago, L’organizzazione internaz. ecc. cit., passim; Ziccardi, Federalismo, societarismo e regionalismo ecc. cit., p. 73; Giuliano, La comunità internazionale e il diritto cit., p. 252 ss., che rileva questo aspetto del fenomeno con particolare acume.
  204. … come ritengono, sia pure prudenzialmente, il Perassi, L’ordinamento delle Nazioni Unite cit., p. 5 e passim; e lo Sperduti, L’individuo nel diritto internazionale cit., p. 190 ss.

    Osserva giustamente lo Ziccardi, Federalismo, societarismo e regionalismo ecc. cit., p. 73, che «gli Stati che si associano … non sono spinti a fare ciò da una norma che stia prima della stessa formazione del consenso, ma da una normale valutazione delle opportunità politiche… Si tratta perciò di collegamenti che gli Stati associati stabiliscono tra di loro su di un piano esterno, espressione di una semplice volontà di collaborazione, destinati a vivere di questa volontà ed a cessare con essa: tipica rappresentazione del concetto stesso di unione internazionale».

    Questo però non impedisce allo stesso Ziccardi di sopravvalutare più o meno esplicitamente il fenomeno della c.d. organizzazione internazionale o delle sue possibilità: come quando parla di «attuazione di un principio di organizzazione» (che a nostro avviso non esiste e non può esistere per effetto d’un accordo internazionale fra Stati sovrani) e di «costruzione» di un «organismo collettivo».

    E un’idea analoga a quella che porta il Morelli ed il Giuliano – anch’essi tendenzialmente orientati in senso negativo – ad applicare alle organizzazioni internazionali il concetto di «organo comune». Si finisce sempre per collocare al di sopra dei soggetti qualcosa che sta al di sotto di essi ed arriverà al massimo a porsi accanto ad essi (salvo fenomeni egemonici che non hanno nulla a che vedere con l’unione pattizia e nemmeno, forse, con il diritto internazionale) (infra, p. 148).

  205. Le possibilità di superamento del sistema internazionalistico stanno dunque nell’organizzazione interindividuale (§ seguente).
  206. Supra, p. 110 ss.
  207. È la tesi che pone il problema della soggettività internazionale come quello della ricerca della destinatarietà delle singole norme o dei singoli diritti e doveri da esse creati, anziché della destinatarietà di una o più norme attributive della «personalità», intesa come qualità giuridica abilitante alla titolarità di un numero più o meno grande di situazioni giuridiche soggettive. Essa è avversata, com’è noto, dal Balladore Pallieri, forse a causa dei termini piuttosto vaghi nei quali è stata proposta e del senso antinormativistico in cui è stata sviluppata.dal Giuliano. Ma v. sul punto Gli enti soggetti cit., nota 9, p. 10 ss.
  208. È solo su questa base, forse, che si può risolvere la disputa fra i sostenitori ed i negatori della soggettività internazionale dell’arbitro e la questione connessa della qualifica della pronuncia arbitrale come atto o fatto giuridico in senso stretto. (La tesi più restrittiva è sostenuta, com’e noto, dal Morelli, quella più liberale dal Balladore Pallieri e dal Salvioli).

    La tesi della sentenza-fatto non si potrebbe evidentemente giovare dell’argomento che gl’ individui non sono soggetti di diritto internazionale, una volta ammesso che la questione di soggettività si deve porre in relazione alle singole norme e situazioni. Qui il Balladore Pallieri troverebbe vantaggio, a sostegno della sua tesi, dalla concezione della soggettività che combatte (supra, nota prec.). Nè potrebbe argomentare il Morelli dall’inidoneità dell’accordo a determinare l’esistenza d’un potere dell’arbitro una volta ammesso (e per noi non concesso) che l’accordo sia idoneo ad elevare la pronuncia a sentenza. Se l’accordo può fare della pronuncia una sentenza inter partes, non si vede che cosa gl’impedirebbe di fare dell’arbitro un soggetto-giudice fra le stesse parti.

    Non ci sembra nemmeno sufficiente, d’altra parte, argomentare, come fa il Balladore Pallieri, dal fatto che nell’attuazione della pronuncia venga in rilievo la volontà dell’arbitro. Anche qui, invero, la tesi del Morelli è messa in difficoltà dal valore di «sentenza» in senso tecnico che il M. stesso attribuisce alla pronuncia come fatto di volontà. (Soccorrerebbe forse il Perassi, recensione alla Sentenza del Morelli, nella Rivista di dir. internaz., X (1931), p. 598, che concepisce la sentenza internazionale – malgrado il bisticcio, diremmo noi – come mero giudizio). Non sapremmo condividere, tuttavia, dicevamo, l’argomento del Balladore Pallieri, perché il fatto che si debba o possa ricercare la volontà o il «voluto» dell’arbitro non implica necessariamente, se non erriamo, che sussistano gli estremi – qui come nell’arbitrato libero interno – dell’atto emanato in base ad un potere giuridico, nel senso in cui è tale la sentenza del giudice, la legge o il contratto. Un problema di accertamento di volontà si pone in un certo senso anche per il mero giudizio, in quanto si debba determinare che cosa l’arbitro abbia voluto dire o quale giudizio abbia voluto dare sui quesiti propostigli: che cosa l’arbitro «ne pensi», insomma, per dirla con parole povere.

    Tanto per la qualifica della pronuncia che per la situazione dell’arbitro, invece, la via d’uscita è costituita, se non erriamo – e ci proponiamo di tornare sull’argomento -, proprio dal rilievo che l’elemento decisivo è la posizione che il preteso giudice internazionale occupa nel sistema ed il senso in cui la sua volontà assume rilevanza. L’elemento essenziale, da questo punto di vista – a parte quanto c’è da dire sul concetto di sentenza e di «fatto risolutivo di controversia» che si vuole applicare dalla dottrina -, è il fatto che l’arbitro internazionale, al pari dell’arbitro libero interno, non viene a trovarsi in una posizione di supremazia nei confronti degli Stati, nè questi in posizione di soggezione. E se ciò è esatto – come a noi sembra che sia, tanto sul piano dell’osservazione storica quanto su quello della portata giuridica dell’accordo internazionale -, e chiaro che l’arbitro non verrebbe ad assumere, per il compromesso e per l’attività che svolge, una posizione propria di giudice: quella posizione, tanto per intenderci, che occupava o tendeva ad occupare nel Medio Evo il Pontefice romano, quando si dichiarava (e in certi casi lo si considerava) istituzionalmente chiamato a dirimere le controversie fra i principi cristiani (per diritto divino o naturale che fosse). Il che non è smentito dal fatto che gli Stati compromittenti siano tenuti prima a fare o non fare quanto e necessario perché l’arbitro sia costituito e svolga la sua opera e poi ad assoggettarsi alla pronuncia. E se per «potere», s’intende il potenziamento giuridico della volontà del soggetto a titolo ed effetto diciamo così «autonomi», sarebbe così escluso che ci sia il «potere» e l’«atto» che dovrebbe costituirne la manifestazione.

    Ma il discorso sul tema sarebbe troppo lungo. Ci limitiamo a rinviare, per ora, oltre alle teorie privatistiche dell’arbitrato già ricordate (nota 52, p. 41), ai cenni del Marinoni, La responsabilità degli Stati ecc., 1914, p. 57 s. in nota.

  209. Vedi la nota precedente.
  210. Il fatto che possa esistere l’organo di funzioni come ente reale senza soggettività e la soggettività senza l’istituzione internazionale, ed il fatto che in linea generica possa esistere un’istituzione senza soggettività «morale», rende estremamente difficile la valutazione delle varie tesi avanzate dalla dottrina in tema di soggettività dell’unione, sia ch’esse neghino sia ch’esse affermino la soggettività giuridica.

    a) Certamente da respingere, innanzitutto, sono le teorie dell’unione-ente. morale internazionale, sia perché esse implicano l’idea della soggettività dell’istituzione internazionale, sia perché non tengono conto della possibilità che il meccanismo non sia o non sia ancora soggetto. b) Ma è ugualmente inaccettabile la tesi che respinge l’idea della soggettività in sè e per sè, in quanto l’inesistenza dell’istituzione (interindividuale o interstatuale che sia) non impedisce. che l’ente reale sia elevato a soggetto. c) Ed è ugualmente da respingere l’idea che sussista l’ordinamento parziale senza la soggettività, perché ciò implicherebbe l’esistenza d’una istituzione non soggetto come ce ne sono tante nel diritto interno.

    Il primo rilievo vale certamente, a nostro avviso, per le teorie dell’Anzilotti, del Baldoni, del Perassi e del Balladore Pallieri, in quanto esse ammettono l’esistenza d’un ente reale-istituzione internazionale-soggetto, mentre per le ragioni esposte l’istituzione internazionale non c’è. C’è solo l’ente reale eventualmente soggetto in funzione di «organo internazionale», nel senso spiegato.

    Il secondo rilievo vale per la tesi negativa della soggettività professata dal Giuliano, che è a nostro avviso accettabile in quanto significhi inesistenza dell’istituzione internazionale corrispondente all’unione, ma da respingere in quanto neghi la soggettività dell’organismo sino a quando esso non diventi uno Stato, e comunque non spiega la funzione dei meccanismi d’unione.

    Il terzo rilievo vale per la tesi dell’Ago (se ed in quanto questo Autore negasse la soggettività delle unioni), perché questa eventuale posizione negativa si troverebbe comunque abbinata all’idea dell’ordinamento particolare.

    Lascia piuttosto perplessi, invece, la teoria del «procedimento tecnico», avanzata dubitativamente dal Morelli come alternativa alla teoria dell’«organo comune». Per quanto ci riguarda, il concetto di procedimento tecnico è quello che più si avvicina, come abbiamo cercato di spiegare altrove, proprio alla nozione esatta dell’ente morale. Ci sembra strano, quindi, da questo punto di vista, che il Morelli neghi l’esistenza di un vero e proprio ente morale, per la mancanza delle norme consuetudinarie idonee a costituirlo, neghi altresì l’esistenza d’una persona reale (ente soggetto elementare corrispondente al meccanismo), ma trovi poi realizzata una specie di via di mezzo fra le due, che somiglia per noi moltissimo proprio all’ente morale.

  211. V. p. es. Zimmern, The League of Nations and the Rule of Law cit., passim; Ago, L’organizzazione internazionale ecc. cit., p. 8 s. e passim; Scelle, Les débuts du Gouvernement de l’ONU, in Res publica, 1946, Vl, p. 1 ss. e rif. ivi; Salomon, Le Préambule de la Charte, base idéologique de l’ONU, Ginevra-Parigi, 1946, p. 99 ss.
  212. V. Scelle, Scr. cit. E per una critica che in linea di massima condividiamo Quadri, Dir. internaz. pubbl. cit., p. 56-59.
  213. Carnelutti, Il processo coreano cit., p. 264.
  214. Supra, p. 62 ss.
  215. … fenomeni che del resto si risolvono soltanto in modifiche nella sfera di efficacia soggettiva dell’ordinamento o nel totale venir meno di questo.
  216. Una genetica ma acuta precisazione su questo punto si trova in Ziccardi, Per una nuova politica estera, in Società nuova, Anno II, I, p. 3, nota 1.
  217. Ago, Scr. cit., p. 8 in fine; Salomon, Le Préambule de la Charte ecc. cit., p. 99 ss.
  218. Questo rilievo (e quello che segue) e molto importante, a nostro avviso, agli effetti della valutazione dei meriti e demeriti delle unioni internazionali. Si fa presto a dire, p. es., che la Società delle Nazioni ha salvato la pace in occasione della controversia greco-bulgara. In realtà se una forza esterna è intervenuta essa è stata quella delle Grandi Potenze, che sarebbero entrate in azione anche se la S.d.N. non ci fosse stata. La S.d.N. è stata solo la sede – e non la sola – in cui l’azione collettiva si è esplicata. Con che non si nega l’utilità del fatto che gli Stati fossero obbligati a trovarsi in quella sede e a discutere le loro vertenze in un certo modo.
  219. Sulla deformazione generale del fenomeno unionistico internazionale determinata dalla teoria dello statuto come «ordinamento parziale», v. ancora infra, p. 148 s.
  220. V. le opere dello Scerni e del Monaco cit. supra, nota 167, p. 104, ma spec. Morelli, Op. e scritto cit. ivi. Di quest’ultimo autore non accettiamo, naturalmente, l’idea dell’ordinamento parziale dell’unione. Accettiamo la distinzione tra il fenomeno giuridico dell’unione in senso stretto (fra gli Stati) e l’ordinamento interno del meccanismo d’unione (L’Istituto di agricol. ecc. cit., col. 1426-27). Quanto al primo elemento, però, lo intendiamo come un mero sistema di rapporti «obbligatori» più o meno definiti fra gli Stati. Il fenomeno istituzionale si trova per noi solo nel secondo elemento (e si tratta di una istituzione originaria).
  221. Giustamente, quindi, si respinge il semplicismo di quei programmi federalistici che pongono il problema dell’unione federativa come problema di volontà statuali (Ziccardi, Federalismo, societarismo ecc. cit., p. 70, 73). Bisogna d’altra parte riconoscere la funzione strumentale essenziale del patto d’unione rispetto alla costituzione dell’istituzione interindividuale (infra, p. 153).
  222. Pur essendo certamente auspicabili, questi sviluppi costituirebbero, in sè e per sè, solo il perfezionamento dell’«organo di funzioni».
  223. Illusione che non manca d’influenzare, come s’è visto, gli stessi giuristi (supra, p. 69).
  224. Un elemento d’interesse notevole, sotto questo aspetto, è la composizione tendenzialmente «parlamentare» dell’Assemblea europea, che pure non è disposta dallo Statuto, il quale lascia i governi liberi di nominare i rappresentanti di ciascun paese nel modo che credono (art. 25). Ciononostante, però, di istituzione si può parlare per ora solo rispetto al meccanismo interno dell’unione.

    L’istituzione interindividuale è in corso lentissimo di preparazione presso i movimenti federalistici dei vari paesi, ed esisterà come embrione vitale solo quando vi sarà un legame diretto fra le élites federaliste e l’assemblea: sia in quanto i deputati a quest’ultima siano eletti nei rispettivi paesi, sia in quanto .si costituisca intorno all’Assemblea un «entourage» animato da un certo spirito .rivoluzionario.

    Un altro elemento di particolare interesse in questo senso e la disposizione .dello Statuto che vieta il richiamo d’un delegato prima della fine dell’anno (artt 25 b), e che supera la disposizione analoga degli stessi Articles of Confederation (V, 1° comma), secondo la quale gli Stati potevano sostituire i loro .delegati anche nel corso dell’anno.

  225. L’unione forse meno lontana – e non oseremmo dire «più vicina» – al fenomeno istituzionale interindividuale è proprio quella del «Consiglio d’Europa».
  226. Più che ad emendamenti delle norme dello Statuto che fanno riserva della sovranità degli Stati-membri o adottano la regola dell’unanimità o il veto, è proprio alle norme sulla composizione delle delegazioni che bisognerebbe pensare di apportare delle modifiche.
  227. È questo il caso del patto confederale dell’America del Nord.
  228. È il caso dei meccanismi corrispondenti alla Piccola Intesa ed alla Società delle Nazioni.
  229. In senso sostanzialmente analogo, v. Bobbio, Funzionalismo e federalismo, ne La Comunità internazionale, II (1947), n. 3, p. 352 ss. spec. 359, ma già Orientamenti federalistici nei paesi anglosassoni nella stessa rivista, I, (1946), n. 4 e Federalismo e socialismo, ne Lo Stato moderno, 1946, fasc. 21.
  230. In senso decisamente contrario, infatti, – sulla base d’una ingiustificata trasposizione sul piano de jure condendo della giustificata opposizione al miracolismo monista sul piano de jure condito -, si pronunciano soprattutto gli scrittori sovietici e d’ispirazione cominformista, come il Vischinsky, L’ONU e il dir. internaz., nella Rassegna della stampa sovietica dell’Ass. Italia-URSS, Roma, fasc. 6-7 (20 luglio), 8-9 (20 sett.) e 10 (30 ott.) 1948; il Krylov, Les notions principales du dr. des gens. nel Recueil cit., 1947, I, p. 435, e il Giuliano, La comunità internazionale e il dir. cit., p. 319-20 (con altri riferimenti), i primi due dei quali non esitano a qualificare senz’altro i giuristi monisti – fra i qual; il Vishinsky include in un sol fascio tutti i «grossi calibri nel campo della teoria del diritto dei paesi capitalistici» (terzo fasc. cit., p. 5) – come servi «dei piani reazionari» dei paesi capitalistici (l. cit. e p. 15). E non solo la teoria del primato del diritto internazionale, ma anche l’idea della riduzione della sovranità degli Stati sarebbe stata «messa in circolazione» per coprire «aperti piani politici a carattere espansionistico»! (l. ult. cit.).

    In sintesi, la causa dei mali dell’umanità e delle guerre è il capitalismo e l’eliminazione delle guerre e delle cause che la provocano sta quindi nell’eliminazione del capitalismo… con quel che segue. Eliminato quest’ostacolo, gli Stati si troverebbero a collaborare «spontaneamente», senza bisogno di federazioni e governi mondiali (capitalismo = guerra, insomma, e viceversa; e socialismo = pace e viceversa. non potrebb’esser più semplice): Vishinsky, Scr. cit., p. 7 principio, nel terzo fasc. cit. e Giuliano, La comunità ecc. cit., p. 319 ss., ma già L’Organizzazione delle Nazioni Unite e la collaborazione economica e sociale, ne La Comunità internazionale, II (1947), p. 449 ss., spec. 478. In attesa che questo avvenga attraverso le riforme di struttura delle società interne, ci dovremmo contentare di quel po’ di «organizzazione internazionale» fornita dalle unioni di Stati – organizzazione che il Giuliano ritiene esistente sotto la forma dell’«organo comune» – guardandoci bene dal chiedere rinuncie a quella sovranità degli Stati che gli statuti «realisticamente» sanciscono e.vogliono rispettata, e rivolgendo invece l’attenzione ai problemi economico-sociali interni allo scopo di determinare i mutamenti necessari per portare le comunità interne a quella condizione «ideale» in cui potranno collaborare «spontaneamente».

    I movimenti federalisti sarebbero «idealistici» e spesso «tendenziosi», nel senso che sarebbero diretti contro l’URSS a sostegno del capitalismo e dell’imperialismo dei paesi occidentali. Niente potenziamento delle Nazioni Unite, quindi, ma rispetto assoluto della sovranità degli Stati (Vishinsky, Scr. cit., prima parte del primo fasc. cit.; p. 8, in fine, del secondo e p. 15 del terzo; e Krylov, Op. cit., p. 461, 464 ss.), niente controllo internazionale sul disarmo o sui diritti umani (v. soprattutto Nazioni Unite, Consiglio economico e sociale, Docum. E/CN. 4/154 del 24 giugno 1948, intitolato «Statement made by the USSR Delegation in the Commission on Human Rights on 18 May I948 with regard to the Drafts and Proposals on Implementation», passim), e niente emendamenti allo Statuto (Vishinsky, Scr. cit.). Niente propaganda, soprattutto, per lo Stato mondiale: «La conception d’un droit mondial – scrive il Krylov, Op. cit. pag. 435 —, aussi bien que celle de l’Assemblée et de la transformation de l’O.N.U. en un «Etat mondial», représente une utopie réactionnaire en son essence, qui poursuit un but déterminé, celui de garantir la suprématie mondiale aux groupements capitalistes respectifs. Une pareille conception est sans conteste en contradiction avec la notion de souveraineté qui est à la base du droit international contemporain…».

    A parte quanto vi sarebbe da dire sul significato e l’ispirazione politica attuale di questa tesi, che e tipica del semplicismo di certe dottrine politico-filosofiche, ed a parte la tirata anti-idealistica ed economico-sociale, che è ormai di prammatica nella letteratura sovietizzante (se ne veda un altro esempio tipico in Bartosek, M., recensione a Cosentini, in IVRA, Rivista internaz. di dir. rom. e antico, I (1950), p. 461 ss., spec. 462 s., dove ricorrono motivi presso che identici), l’idea esposta ci sembra tutt’altro che argomentata ed evidentemente «tendenziosa».

    Non pensiamo certo che il capitalismo sia un bene e ch’esso non abbia la sua parte nei mali che affliggono l’umanità – e soprattutto in quel formidabile male ch’è l’esasperazione delle lotte di classe e l’instaurazione di regimi totalitari e dispotici per sostenerle, che costituiscono gli scopi o l’attività principale dei comunisti d’ogni paese. E ci guardiamo bene dal negare che le guerre abbiano trovato e possano trovare una delle loro cause in interessi capitalistici. Nè neghiamo l’opportunità e l’urgenza di riforme sociali, siano pure le più ardite. Quello che è falso e tendenzioso è che la causa prima e fondamentale di tutte le guerre sia il capitalismo e che basti cambiare il regime economico delle società umane per eliminare i pericoli di conflitto. Tanto per cominciare, è inutile stare a formalizzarsi sul termine «guerra» per escludere le guerre civili dal novero dei mali dell’umanità: e l’esasperazione delle differenze di classe operata dai comunisti è oggi causa di guerre civili molto più dure e sanguinose di quelle internazionali: il che non impedisce ai comunisti di fomentarle in quanto guerre «giuste» contro il capitalismo dei singoli paesi. Dovremmo cominciare a discutere, quindi, di guerre «giuste» ed «ingiuste» come si faceva un tempo, invece di predicare l’astensione da qualunque guerra di aggressione, come giustamente si cerca di fare.

    Quanto poi all’idea centrale, che una volta sparito il capitalismo la pace sia assicurata, è evidente che i casi sono due. O l’instaurazione delle c.d. repubbliche «popolari» in tutto il mondo coinciderebbe con l’affermarsi del superstato sovietico, ed allora non ci sarebbero più guerre esattamente per la stessa ragione per cui non ve ne sarebbero se il mondo fosse unificato sotto regime capitalista per opera d’una sola potenza. oppure vi sarebbero tante c.d. repubbliche «popolari» indipendenti – almeno altrettanto indipendenti quanto lo sono oggi l’una rispetta all’altra, p. es., la Jugoslavia e la Bulgaria, – ed allora non si vede per quale ragione se non per un miracolo dovrebbero considerarsi senz’altro eliminati i pericoli di guerra. Una comunità povera di materie prime o priva di sbocchi al mare sarà tentata di procurarseli con la guerra non meno di quanto sia tentata a farlo oggi una comunità capitalistica in condizioni analoghe. Il capitalismo di Stato, anzi, sarebbe ancora più pericoloso di quello privato – sia pure di privati che «controllano»la politica estera e interna dello Stato se non altro perché i mezzi di produzione esistenti e quelli desiderati si trovano o dovrebbero venire a trovarsi nelle stesse mani dei dirigenti la politica estera. In secondo luogo, i capi d’una potenza saranno tentati di estendere dl loro potere sulle altre non meno di quanto siano tentati di farlo oggi. E questo senza contare le divergenze ben più gravi di carattere ideologico, che non potrebbero mancare di saltar fuori fra le stesse repubbliche «popolari» e non sempre si potrebbero risolvere con una epurazione dei quadri. Il semplicistico ragionamento degli scrittori sovietici (del quale apprezziamo pienamente l’efficacia sulle «masse» che lo subiscono) non e diverso, in sostanza, da quello di Mussolini e Hitler, quando dicevano – senza fare i conti fra di loro e con i candidati «Capi» degli altri paesi – che il solo modo di assicurare la pace era che il mondo diventasse fascista o nazista.

    Quanto all’apprezzamento dato dal Vishinshy sulle teorie moniste, non spetta a noi discuterlo, perché non siamo monisti. Possiamo solo apprezzarne il basso conio. Teniamo solo a precisare, a scanso di equivoci, che la concezione dualista che la maggior parte della dottrina italiana professa (e che noi riteniamo non sin sempre coerentemente applicata dagli stessi autori che le restano più fedeli) e solo il risultato dell’osservazione scientifica e obbiettiva della realtà. Essa non ha nulla a che vedere con le teorie «scientifiche», del signor Vishinsky o del signor Krylov, nè con la filosofia anti-idealistica, e tanto meno con quella grande novità che sarebbe la concezione «sovietica» del diritto. Il che significa che se combattiamo le dottrine moniste o monisteggianti è perché esse non corrispondono alla realtà presente e non sono la premessa più adatta per sollecitarne il superamento sul piano interindividuale: non perché riteniamo che il sistema presente debba essere conservato. Tanto più ci sembra esiziale questo sistema, anzi, in quanto esso torna a tutto vantaggio della politica d’aggressione interna dei falsi «progressisti» sovietici.